Capitan Tempesta. Emilio Salgari
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Il cannone rombava con maggior frequenza di prima, e di quando in quando una di quelle grosse e pesantissime palle di pietra, usate in quell’epoca come proiettili, passava sibilando in aria, lasciandosi dietro una striscia di scintille e cadeva con sordo fragore su qualche tetto, sfondandolo e mettendo lo scompiglio fra le persone che occupavano le stanze.
– Brutta notte disse il signor Perpignano, che camminava a fianco di Capitan Tempesta, il quale si era avvolto interamente nel suo ampio ferraiuolo. – I turchi non potevano sceglierne una migliore per tentare l’attacco del bastione di San Marco.
– Sarà uno sforzo inutile, almeno per ora rispose il giovane capitano. – L’ora terribile della caduta di Famagosta non è ancora suonata.
– Ma non tarderà a giungere, signore, se la Repubblica non si affretta a soccorrerci.
– Non contiamo che sul valore delle nostre spade e sarà meglio, signor Perpignano. La Serenissima è troppo occupata in questo momento a difendere le sue colonie della Dalmazia, e le galere turche battono le acque dell’Arcipelago e del Mar Jonio, pronte ad affondare quelle veneziane che muovessero in nostro aiuto.
– Allora verrà il giorno in cui saremo costretti ad arrenderci.
– Ed a lasciarci massacrare, perchè so che il Sultano ha dato ordine di passarci tutti a fil di spada, per punirci della nostra lunga resistenza.
– Canaglia! Noi forse saremo morti e non assisteremo a quell’orrenda strage, capitano disse il signor Perpignano con un sospiro. – Poveri abitanti! Sarebbe meglio che si lasciassero seppellire tutti sotto le rovine della loro disgraziata città.
– Tacete, tenente, – disse Capitan Tempesta. – Sento una profonda angoscia, nel pensare al momento in cui quelle belve, sbucate dai deserti infuocati dell’Arabia, si rovesceranno su Famagosta, assetate di sangue peggio delle tigri.
Il drappello era allora uscito dalle viuzze della città sbucando su una larga strada, chiusa da una parte dalle case e dall’altra da un alto bastione privo quasi del tutto dei merli, e su cui fiammeggiavano parecchie torce.
A quella luce rossastra si scorgevano parecchi uomini coperti di ferro, che s’affaccendavano intorno ad alcune colubrine. Di quando in quando un lampo balenava rompendo bruscamente le tenebre, seguito da una detonazione.
Dietro gli artiglieri, delle lunghe file di donne, alcune riccamente vestite, ed altre stracciate, s’avanzavano silenziosamente reggendo a fatica dei sacchi che vuotavano al di sopra dei merli, sfidando impavide le palle degli assedianti.
Erano le valorose donne di Famagosta che rinforzavano il bastione, incessantemente minato dal nemico, colle macerie delle loro case distrutte dalle bombe degli infedeli.
CAPITOLO II. L’assedio di Famagosta
L’anno 1570 era cominciato nefasto per la Repubblica Veneta, la più grande e formidabile nemica della potenza turca. Già da qualche tempo il ruggito del Leone di San Marco si era affievolito ed a Negroponte prima, in Dalmazia e poi nelle isole dell’Arcipelago greco aveva ricevute le prime ferite, nonostante gli eroici sforzi dei figli della laguna.
Selim II, il potentissimo Sultano di Costantinopoli, assisosi saldamente sul Bosforo, rintuzzate le armi degli ungheresi e degli austriaci, ributtati nella Piccola Russia gli ortodossi, padrone dell’Egitto, di Tripoli, di Tunisi, dell’Algeria e del Marocco e di mezzo Mediterraneo, non attendeva che il momento opportuno per strappare per sempre ai figli del leone di San Marco, i loro ultimi possessi d’oriente.
Sicuro della ferocia e del fanatismo dei suoi guerrieri e fortissimo ormai sul mare, non gli fu difficile trovare un pretesto per romperla coi veneziani, che già cominciavano a dare qualche segno di decadenza.
La cessione dell’isola di Cipro alla Repubblica, fatta da Caterina Cornaro, fu la scintilla che diede fuoco alle polveri.
Il Sultano, temendo pei suoi possessi dell’Asia Minore, forte della sua potenza, impose senz’altro ai veneziani di sgombrare l’isola, incolpandoli di dare ricetto a corsari Ponentani che armavano galere a danno dei fedeli della Mezzaluna.
Come era da prevedersi, il Senato veneziano aveva sdegnosamente respinto il messaggio inviato dal barbaro discendente del Profeta ed aveva raccolte le forze disperse in Oriente ed in Dalmazia, preparandosi animosamente alla guerra.
Cipro non contava in quell’epoca che cinque città: Nicosia, Famagosta, Baffo, Arines e Lamisso; ma solamente le due prime si trovavano in istato di opporre una qualche resistenza, essendo fornite di torri e bastioni.
Furono quindi mandati ordini di rinforzarle il meglio possibile e di formare un vasto campo trincerato a Lamisso per raccogliere le truppe venete, che erano già in viaggio sotto il comando di Girolamo Zane e di richiamare prontamente da Candia la flotta, che era guidata da Marco Quirini, uno dei più abili marinai che avesse in quel tempo la Repubblica.
La guerra era stata appena dichiarata, quando gli aiuti mandati dal Senato sbarcarono sani e salvi a Lamisso, sotto la protezione delle galee del Quirini.
Si componevano quelle forze di ottomila fanti fra veneti e schiavoni, di duemila e cinquecento cavalieri e di molta artiglieria. A difesa dell’isola non vi erano allora che diecimila fanti, fra alabardieri e archibugieri, quattrocento schiavoni dalmati e cinquecento stradioti a cavallo, ma si erano aggiunti numerosi abitanti, fra i quali molti nobili veneziani che non sdegnavano di esercitare il commercio.
Avendo appreso che i turchi erano di già sbarcati in falangi immense, al comando del Gran vizir Mustafà, che godeva fama di essere il più abile ed anche il più crudele dei generalissimi turchi, i veneziani, divise le loro forze in due corpi, si erano affrettati a chiudersi in Nicosia ed in Famagosta, risoluti ad attendere dietro a quei saldi bastioni l’urto poderoso delle orde nemiche.
Nicolò Dandolo, col vescovo Francesco Contarini, aveva assunto la difesa della prima; Astorre Baglione, con Bragadino, Lorenzo Tiepolo, ed il capitano albanese Manoli Spilotto, si erano incaricati di tener duro nella seconda fino all’arrivo di nuovi rinforzi che la Repubblica aveva solennemente promessi.
Mustafà, che aveva forze imponenti, sette od otto volte superiori a quelle dei veneziani, fu ben presto, quasi senza combattimento, sotto le mura di Nicosia, che voleva espugnare per la prima, parendogli che quella piazza dovesse offrire la maggior resistenza.
Un assalto furibondo dato ai bastioni di Podacataro, di Costanzo, di Tripoli e di Davile, andò a vuoto, anzi riuscì disastroso agli infedeli, perchè avendo il tenente Cesare Piovene insieme al conte Roca fatta una improvvisa sortita alla testa di numerose compagnie, inflisse loro gravissime perdite.
Il 9 settembre 1570 Mustafà ritorna però alla carica ed al sorgere dell’alba spinge le sue innumerevoli orde all’assalto del bastione Costanzo, riuscendo ad impadronirsene dopo una mischia ferocissima.
I veneziani, vedendosi ormai perduti, avviarono trattative di resa, alla condizione che si accordasse a tutti salva la vita.
Acconsentì il malfido vizir: invece, non appena le sue orde ebbero occupata la città, scordando la promessa fatta, ordinava freddamente la strage generale dei prodi difensori e della popolazione che li aveva aiutati.
L’eroico Dandolo fu il primo a essere immolato e ventimila persone furono massacrate, trasformando la disgraziata città in un immenso cimitero.
Solo