I pescatori di balene. Emilio Salgari

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I pescatori di balene - Emilio Salgari

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Da alcuni giorni, fra le 10 e le 11 della notte tramontava e per alcune ore si teneva celato sotto l’orizzonte. E già gli uccelli marini erano diventati meno numerosi e ad ogni istante grandi bande fuggivano verso il sud in cerca di un clima più mite. I ghiacci non erano ancora apparsi, ma i marinai se non li vedevano, li sentivano.

      Il capitano aveva notato e presentito tutto ciò prima dell’equipaggio e perciò stimolava i lavoranti, non avendo tuttavia ritardato a spingersi più innanzi per completare il carico.

      Prima che il sole tramontasse una terza parte del cetaceo era stata già dipanata e parecchie tonnellate d’olio erano state calate nella stiva.

      Quella notte, per la prima volta, il freddo scese tre gradi sotto zero e l’acqua gettata sulla tolda poco prima dello spuntare del giorno, gelò.

      Il 18 e il 19 settembre lo smembramento fu continuato con tanta alacrità che alle 10 pomeridiane l’ultimo pezzo di grasso veniva ritirato a bordo. Il capitano fece tosto spiegare le vele e il «Danebrog» abbandonò il gigantesco carcame agli uccelli marini, mettendo la prua ad est ove si scorgevano sempre, ed in grandissima quantità, le macchie oleose galleggiare sull’acqua.

      La sera era magnifica. Il sole splendeva superbamente calando lentamente verso l’orizzonte, dove erravano alcune nuvolette dalla tinta di fuoco, e il mare era liscio come uno specchio, senza la più piccola ruga.

      In lontananza, verso sud, giganteggiavano le dirupate coste americane coi loro abeti e i loro pini piantati sulle vette; verso nord una coppia di delfini gladiatori scherzava, mostrando ora le code e ora l’oscuro dorso; verso ovest una gran frotta di oche bernine filava in silenzio e rapidissimamente verso regioni più calde.

      L’aria era mite e aveva una mollezza che rammentava una delle più belle notti d’autunno dei climi temperati, rinfrescata di quando in quando da un venticello che spirava da ovest.

      Il «Danebrog», con tutte le sue vele spiegate, per alcune miglia filò verso est, poi piegò verso la costa americana ove si dirigevano le macchie oleose.

      Nulla accadde durante la notte, ma poco dopo il sorgere del sole fu fatta una scoperta che turbò gli animi e fece aggrottare la fronte al capitano Weimar che era appena salito sulla tolda.

      Era una montagna di ghiaccio, un «iceberg» che scendeva lentamente verso sud spinto dalle correnti e dal vento che da alcune ore soffiava da nord.

      – Brutto incontro! – disse Koninson al tenente, che era salito sulla murata per meglio osservare l’«iceberg».

      – Era ora! – rispose con voce tranquilla il signor Hostrup. – Non siamo più in estate.

      – Non dico di no, tenente, ma se a questa montagna ne tenessero dietro altre cento o duecento, come avanzeremo noi?

      – Il «Danebrog» ha un solido sperone e non teme i ghiacci.

      – Ditemi, tenente, le montagne di ghiaccio si spingono molto verso sud?

      – Molto, Koninson. Io ne vidi alcune a parecchie centinaia di miglia dalle isole Aleutine, in pieno oceano Pacifico, altre a sud del Banco di Terranova o sulle coste del grande Impero russo e perfino presso le sponde della Norvegia. Anzi mi ricordo che una nave in viaggio dalla Scozia a Brema fu schiacciata da un «iceberg» che era sceso nel mare del Nord.

      – Tanto scendono!

      – E scenderanno sempre più. Se tu vivrai un secolo ne vedrai alcuni anche sulle coste della Danimarca e fors’anche della Prussia.

      – E perchè, signore?

      – Perchè la linea dei ghiacci ogni anno guadagna spazio.

      – Dunque il freddo cresce nelle regioni polari?

      – Sì, Koninson. Alcuni mari, che alcuni secoli or sono erano navigabili, ora sono ingombri dai ghiacci e alcune terre, un tempo fertili, oggi sono ridotte a deserti di neve. Vuoi degli esempi?

      – Gettateli fuori, signor Hostrup.

      – Nel IX secolo, alcuni Scandinavi che avevano fondato delle colonie in Groenlandia e in Islanda, sbarcavano su una costa ove cresceva la vite, e perciò chiamarono quella terra Vinland. Sai come si chiama oggi quel paese?

      – No, signor Hostrup.

      – Si chiama Labrador.

      – Come, nel IX secolo nel Labrador cresceva la vite!

      – Si, fiociniere. E cosa è oggi il Labrador?

      – Un deserto di neve ove la vite non crescerebbe nemmeno accanto alla stufa. Per Bacco, che discesa hanno fatto i ghiacci!

      – Un altro esempio, Koninson. Quattrocento anni fa gli Islandesi trafficavano liberamente, in pieno inverno, coi Groenlandesi. Oggi d’inverno non si arrischiano più a navigare in quel tratto di mare per non venire stritolati dai ghiacci.

      – È strano! – disse Koninson.

      – Vuoi ora un terzo esempio? Quaranta o cinquant’anni fa, sulle coste dell’America settentrionale e sulle vicine isole, vivevano in grande numero i buoi muschiati, grossi e bellissimi ruminanti dal pelo lunghissimo e dalle grandi corna. Sai perchè oggi questi ruminanti sono scomparsi?

      – Perchè, tenente?

      – Perchè il freddo è sceso a distruggere le praterie e questa è cosa quasi recente. Io ho conosciuto un capitano il quale cinquant’anni fa cacciava le balene, durante l’inverno, nella baia di Melville. Chi è l’audace baleniere che oggi ardisce entrare d’inverno in quella baia?

      – E nell’oceano antartico, la linea dei ghiacci si spinge pure sempre più innanzi?

      – Più che nell’oceano artico, Koninson. Colà si trovano dei ghiacci sopra il 50° parallelo e talvolta anche sopra il 45°, specialmente nel tratto di mare compreso fra l’America del Sud e l’Australia.

      – Che ciò dipenda dal raffreddarsi del nostro globo?

      – Certamente. Ecco l’«iceberg»; guarda come è bello!

      La montagna di ghiaccio era allora vicinissima al «Danebrog». Aveva la forma di una piramide, un’altezza di oltre cento metri e una base di trecento. I raggi del sole, riflettendosi sulle mille faccettine, la rendevano così sfolgorante che a guardarla gli occhi provavano un acuto dolore.

      Sulla cima di quel colosso, che il vento del nord spingeva verso la costa americana, alcuni uccelli marini avevano piantato i loro nidi e mandavano acute strida.

      Tutto l’equipaggio del «Danebrog», quantunque abituato a simili incontri, era salito in coperta a contemplare quel primo apportatore del freddo che, colpito in pieno dal sole, scintillava come fosse un enorme diamante.

      – Bello! – disse Koninson.

      – Ma pericoloso – aggiunse il tenente.

      Ad un tratto dalla sommità di quella montagna caddero dei frammenti di ghiaccio che produssero sull’acqua un rumore analogo a quello delle goccie d’acqua. Subito gli uccelli se ne volarono via mandando strida di spavento.

      – L’«iceberg» si rovescia!– gridò mastro Widdeak. – Attento all’onda, timoniere!

      La

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