I pescatori di balene. Emilio Salgari

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I pescatori di balene - Emilio Salgari

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bisogna perderlo di vista. Due gabbieri sulle crocette e tu, mastro Widdeak, – aggiunse, volgendosi ad un vecchio marinaio che stava al timone – governa in modo di tenerti sempre a poca distanza dal cetaceo. E ora andiamo a vedere coi nostri occhi.

      Salì sulla murata di tribordo aggrappandosi alle sartie del trinchetto e guardò nella direzione indicata con un forte cannocchiale.

      – Lo vedete, capitano? – chiese Hostrup che l’aveva raggiunto.

      – Sì, tenente.

      – Balena o capodolio?

      – Non è facile dirlo, ma dalle sue mosse brusche, lo crederei più un capodolio che una balena.

      – Lo cacceremo egualmente.

      – Lo credo, tenente; Koninson non teme simili mostri, quantunque siano, specialmente se soli, pericolosissimi. Mi ricordo che una volta uno, un solitario anche quello, ebbe l’audacia di gettarsi contro un brigantino.

      – E lo colò a picco?

      – Lo sfasciò di colpo, tenente. Ehi, Koninson, prepara due baleniere.

      – Pronto, capitano! – rispose il fiociniere.

      Con un fischio chiamò i diciotto marinai che formavano l’equipaggio del «Danebrog», e si mise alacremente al lavoro. Dieci minuti dopo tutto era pronto per la pesca. Non mancava che di calare le baleniere in mare e di muovere contro il cetaceo che non pareva disposto ad abbandonare quelle acque.

      Il capitano Weimar e il suo tenente, sempre in piedi sulla murata seguivano attentamente collo sguardo l’enorme pesce che di quando in quando si tuffava o avventava dei formidabili colpi di coda sollevando delle grandi ondate.

      Il primo si mostrava impazientissimo e imprecava contro l’oscurità; il secondo invece, uomo flemmatico quanto mai, quantunque non meno intrepido marinaio del capitano, appariva tranquillissimo e taceva fumando con tutta flemma in una vecchia pipa che quasi mai abbandonava.

      Anche Koninson e l’equipaggio erano in preda ad una viva agitazione, e ingiuriavano il cetaceo che non si lasciava accostare dalla nave, quantunque questa filasse con una notevole velocità avvicinandosi alle isole Aleutine, che ormai non dovevano essere molto lontane.

      Finalmente cominciò a far chiaro. Ad oriente apparve una luce biancastra che fece impallidire la luce degli astri e che gettò sui neri flutti delle tinte madreperlacee di bellissimo effetto.

      Il capitano attese ancora un po’, quindi tornò a puntare il cannocchiale verso il cetaceo che allora si trovava a due miglia dal «Danebrog», ma quasi nel medesimo istante il gigantesco pesce, quasi indovinasse che qualcuno lo spiava, si tuffò.

      – Ah, brigante! – esclamò Weimar. – Ma non per questo mi sfuggirai. Ehi, mastro Widdeak governa dritto su quel briccone!

      Il mastro non si fece ripetere il comando e lanciò il «Danebrog» verso il luogo ove il cetaceo si era inabissato; ma passarono dieci, venti, trenta minuti, senza che apparisse a galla.

      – Non è una balena quella là! – disse il capitano. – Se lo fosse, a quest’ora sarebbe già tornata a galla.

      – È un capodolio, capitano – disse il tenente. – Non ci sono che questi cetacei che siano capaci di starsene quaranta, cinquanta e anche sessanta minuti senza respirare.

      – Niente di meglio. Alla balena preferisco il capodolio che dà maggior profitto. Ma come mai si trova qui?

      – Guarda! Guarda! – gridò in quell’istante Koninson.

      A cinquecento metri dal «Danebrog» si era visto alla superficie dei mare un largo tremolio, segno evidente che il cetaceo stava per risalire; poi apparve un punto nero, indi una massa enorme che gettò in aria due nuvolette di vapore grigiastro. Koninson gettò un grido:

      – Un capodolio! Un capodolio! Alle baleniere, ragazzi!

      II. LA CACCIA

      Il fiociniere non si era ingannato.

      Era un vero capodolio, pesce enorme, dalla testaccia spaventevole che eguaglia il terzo della lunghezza del corpo, il muso assai rigonfio, la bocca immensa armata di cinquantaquattro denti di forma conica e ricurvi all’indentro e il dorso coperto di gibbosità più o meno grandi.

      Era lungo diciassette o diciotto metri, con una circonferenza di quattordici o quindici, enorme massa che prometteva almeno sessanta o settanta tonnellate dì eccellente olio, senza contare quel prezioso liquido conosciuto col nome di bianco di balena che portava nella testa.

      Il mostro pareva non essersi accorto della presenza del «Danebrog», e dopo il primo soffio si era messo a nuotare lentamente, quasi interamente sommerso, mostrando di quando in quando l’estremità dei muso e lanciando in aria, con sordo rumore, le nuvolette di vapore che diventavano però sempre meno fitte.

      – Abbiamo da fare senza dubbio con un vecchio maschio – disse il capitano.

      – Peccato che sia solo – disse Koninson che guardava il cetaceo con occhio fiammeggiante.

      – Avrai un gran da fare egualmente, fiociniere. Tu sai che questi mostri sono sempre di cattivo umore e coraggiosi fino alla pazzia. Affrettiamoci prima che si allontani troppo. Ai vostri posti, giovanotti.

      In un baleno furono imbrogliate le vele e le due baleniere sospese alle gru furono calate in mare. Erano queste due svelte imbarcazioni, colla prua tagliente, le costole saldissime, a prova di coda. I remi, i ramponi, le lance e le lenze erano già state collocate a posto.

      Il tenente Hostrup, Koninson e quattro robusti rematori, presero posto nella prima; mastro Widdeak, il secondo fiociniere Harwey, un bravo giovanotto allievo di Koninson e che aveva già ramponate non poche balene, presero posto nella seconda assieme ad altri quattro marinai.

      – C’è tutto? – chiese il capitano curvandosi sulla murata.

      – Tutto – risposero ad una voce il tenente e il mastro.

      – Al largo adunque e che Dio vi guardi!

      Le due baleniere a quel comando s’allontanarono fendendo le onde con grande rapidità. Il tenente e il mastro, con un lungo remo le guidavano e accanto a loro con una coscia trattenuta nella scanalatura della poppa, stavano i due fiocinieri cogli occhi fissi sul cetaceo e i ramponi in mano, lance terribili, munite di una freccia lunga un buon metro, in forma di una V rovesciata, coi margini esterni taglientissimi e i margini interni grossi e dritti per impedire all’arma, una volta entrata nelle carni del cetaceo di uscirne.

      Ad ognuna di queste armi era già attaccata una lenza di 400 metri terminante in una tavoletta di sughero grossa assai e sulla quale si vedeva impresso, a ferro rovente, il nome del «Danebrog» e il porto da dove era salpato.

      Il capodolio, a quanto pareva, non aveva ancora scorto le due baleniere che gli si avvicinavano rapidamente e in silenzio, manovrando in modo da coglierlo in mezzo. Continuava tranquillamente a nuotare, tuffando ora la testa per pascersi, o sollevando la possente coda bilobata, un sol colpo della quale era più che sufficiente per gettare in aria o schiacciare gli arditi cacciatori che stavano per affrontarlo.

      Già le baleniere non erano che a tre gomene, quando il mostro si voltò bruscamente verso di esse guardandole coi suoi occhietti e mostrando la sua enorme bocca

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