La tigre della Malesia. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La tigre della Malesia - Emilio Salgari страница 18
Si trascinò senza emettere un sol gemito fino al rivoletto d’acqua, la principale medicina che egli possedesse, e spruzzò ripetutamente la ferita, poi facendo a brani un lembo della sua camicia di fina battista, fece alcune filacce, e la fasciò con mano abile. Il più era fatto, si trattava ora di cercare qualche erba a lui solo nota e di godere un lungo riposo. Il mezzo di trarsi d’impiccio sarebbe venuto dopo.
Bevette qualche sorso d’acqua per calmare la sete ardente che lo divorava cagionata da una violenta febbre, sostò ancora pallido e disfatto sostenendosi colle mani e colle gambe, credendosi sempre in procinto di venir meno, poi riprese le mosse, gemendo lugubremente. Bisognava cercar una di quelle erbe, ed egli era uomo da trovarla, e la trovò a poca distanza di un gruppo di bambù.
Era una pianticella alta al più sei pollici con ramoscelli pieghevoli, e foglie lunghe lunghe. Il pirata, facendo uno sforzo che gli costò una centesima imprecazione, strappò le radici e senza badare alla terra raggruppata attorno, si diede a masticarla finché l’ebbe ridotta a una specie di pasta gommosa, che applicò sulla ferita.
Aveva appena terminato che l’energia l’abbandonò per la seconda volta. Chiuse gli occhi che roteavano un cerchio di sangue, strinse i denti nuotanti fra la bava, cercò sostenersi brancolando come per trovare un appoggio alle mani e rotolò appié dei bambù bestemmiando Dio e Maometto. Dieci volte tentò rialzarsi digrignando i denti come una tigre, destando colle sue urla gli echi delle foreste, poi spossato cedette e cadde in una specie di svenimento che durò più di una mezz’ora.
Quando tornò in sé una sete ardente lo divorava e la febbre gli faceva provare interminabili tremiti a onta del sole che brillava. Si stropicciò gli occhi, poi si mise a strisciare cercando raggiungere il torrente, ma non vi riuscì.
Allora quell’uomo si rizzò sulle ginocchia alzando le braccia verso il cielo come una minaccia, come una sfida insensata e dal suo sguardo sembrò scaturissero scintille. Si credette più forte che mai.
– A me, mie forze! È d’uopo vivere!
Si rizzò girando attorno lo sguardo torvo, sostenendosi per un miracolo di potente energia e camminò o meglio barcollò fino al rivoletto dove cadde sulle ginocchia. Non voleva di più; tuffò le avide labbra fra le gorgoglianti acque, bagnò una seconda volta la ferita. Tentò una seconda volta di rialzarsi ma non fu capace e andò ad appoggiarsi ai piedi di un arecche, le cui sei od otto foglie di una sproporzionata grandezza (non minore di quindici piedi su sette di larghezza) proiettavano una benefica ombra.
Egli rimase cinque, dieci e forse più minuti immobile, col capo appoggiato al tronco dell’albero e le braccia conserte, guardando il mare che si apriva a lui dinanzi, quasi volesse indovinare ciò che succedeva a Mompracem, poi si scosse.
La sua faccia s’abbuiò terribilmente, i suoi occhi s’accesero d’uno strano fuoco, le labbra si contrassero fremendo mostrando i denti. Un pazzo scoppio di risa gli uscì dalla gola.
– Ah! – esclamò egli con rauca voce che pareva proprio il ruggito di una tigre. – Chi avrebbe detto che un giorno Sandokan avrebbe morso la polvere sotto i colpi di un incrociatore? Chi avrebbe detto che la Tigre della Malesia avesse a cedere dinanzi a un leone? E chi avrebbe detto che la Tigre ferita si ricovererebbe nella tana del nemico? Oh! quando vi penso sento ardermi il sangue dalla vendetta!…
Una spaventevole bestemmia echeggiò sotto le volte fronzute di grandi alberi facendo tacere le scimie verdi che dondolavano sulle cime dei più alti rami.
Il pirata tornò a guardare il mare sempre tranquillo e la terra su cui riposava.
– Che importa – continuò egli con maggior ira battendo coi pugni chiusi la terra, – che importa se oggi vinto e ferito mi trovo su questa odiata terra delle giacche rosse, quando domani questi luoghi che mi hanno visto approdare spossato e dissanguato non avranno più abitatore alcuno e non conserveranno più traccia di sé?…
«Che importa se oggi il leone ha il ruggito più forte della Tigre malese, quando domani sarà lui che morderà la polvere e sopra di lui sibileranno mille lingue di fuoco che struggeranno i suoi discendenti? Non si conosce ancor bene la potenza del mio braccio, il mio nome, il mio odio tutto accumulato su questo palmo di terra che dovrebbe fremere al mio soffio! Bene, battuto oggi, vincitore senza pietà domani!
Il pirata, così parlando, si animava come assaporasse di già la vendetta, agitava le braccia come brandisse una scimitarra di fuoco pronta a frantumare l’intera Labuan, fremeva e si dimenava bestemmiando.
Il dolore della ferita lo ricondusse alla realtà; egli divenne cupo e si morse le dita.
– Pazienza, Sandokan – continuò egli poi su altro tono, – la tigre della Malesia sa spiare la sua preda senza fretta e senza rumore, cerchiamo imitarla. Non sarei più il medesimo uomo se avessi a dimenticare l’onta di una sconfitta. Mompracem è laggiù al ponente, la vendetta mi darà la forza di raggiungerla, dovessi farmi schiavo di queste giacche rosse. Sono ancora il terribile Sandokan; malgrado la mia ferita, saprò trarmi d’impaccio anche sulla terra di loro… no, sulla terra del fuoco, sulla terra del Borneo!
Stette un’ora nella medesima posizione, appoggiato al tronco d’arecche, coll’occhio scintillante, fisso sul mare le cui onde venivano a morire gorgogliando a pochi passi lontano, quasi volesse invocare da esse, che egli chiamava sorelle, un aiuto e porgendo orecchio al sibilo del sangue impoverito, al battito precipitoso del cuore e ai tremiti della febbre che lo divorava. Si sentiva stordito, spossato, ammalato; il sangue gli affluiva in testa e i denti battevano come galoppo formidabile; andò ancora a spegnere la sete al ruscello tuffandovi avidamente le labbra, le mani, la testa.
I dolori ricominciarono accompagnati da una spossatezza indefinibile. La ferita gli strappava gemiti, le forze lo abbandonavano a onta di tutta la sua energia. Lottò ancora dieci volte trascinandosi alla riva del ruscello per tuffar la fronte ardente e spegnere la sete che lo divorava, confondendo Dio e gli uomini, invocando il Portoghese, i suoi pirati, la sua Mompracem, poi ricadde sfinito appié dell’arecche nel mentre che il sole dopo di aver compiuto il suo giro si tuffava nel mare dopo un breve quanto magnifico crepuscolo.
– La notte! La notte! – esclamò il ferito sollevando la terra a lui d’intorno colle unghie. – Oh! io non voglio dormire, voglio esser forte, ancora forte. Il nemico è là mi potrebbe spiare… no, non voglio dormire io… non voglio!
Si portò ambe le mani sulla ferita dolorosa e si rizzò in piedi. Girò lo sguardo verso la foresta che diventava rapidamente oscura e al mare che diventava color d’inchiostro, parve indeciso sulla via da prendere, poi si gettò sotto gli alberi, movendo diritto, senza saper il dove, né il perché. Camminava per non dormire, per non essere sorpreso dal nemico che forse vegliava; camminava per non cadere nelle sue mani.
Nel suo delirio credeva che gli Inglesi fossero là ad aspettarlo, pronti a precipitarsi su di lui appena addormentato. Credeva sempre di udire le grida degli inseguitori, i loro colpi di fucile, l’abbaiar dei loro feroci cani e fuggiva, ad onta della ferita, cadendo, rialzandosi, lasciando lembi del suo vestito ridotto a brani fra i cespugli, incespicando nelle radici, scalando alberi atterrati, precipitandosi nei ruscelli, bestemmiava, malediceva, ruggiva come la tigre agitando il suo kriss la cui impugnatura tempestata di diamanti scintillava come una face quando un raggio di luna vi batteva sopra.
Continuò la forsennata corsa per dieci minuti, internandosi sempre più nelle foreste, destando tutta la selvaggina dei dintorni, poi si arrestò anelante, smarrito. Alzò le braccia come un pazzo invocando la vendetta celeste su quella terra,