Il ponte del paradiso: racconto. Barrili Anton Giulio

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Il ponte del paradiso: racconto - Barrili Anton Giulio

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– disse Filippo. – Eri tu che mi avevi messo dentro; ed io mi sono trovato al laccio senza volerlo; ma poi ho pensato… ho pensato che non dovevo continuare, che non potevo restare in quell'ufficio di accompagnatore eterno, senza lasciar credere alla gente, e prima di tutto alle signore Cantelli, di averci le mie ragioni particolari… M'intenderai, senza che io te ne dica di più.

      – È un buon sentimento; – concesse Raimondo. – Ma non bisogna esagerarlo. Sentimi, caro; perchè tu ami la signorina Margherita…

      – Non ho confessato questo; – interruppe Filippo.

      – Ma va da sè. Come puoi non amarla? Come si può non amarla?

      – Sentimento generale, allora; – rispose Filippo. – È dunque molto generico, e impegna poco.

      – No, caro; – riprese Raimondo. – Tutti debbono amarla, vedendola; ma uno è destinato ad amarla per tutti, avendo occasioni di avvicinarla, e ragioni di piacerle. Sei tu, assassino, del “non c'è male„, sei tu che la fortuna ha privilegiato; sei tu che hai ricevuto il colpo mortale. Tu dunque l'ami, è valuta intesa. Ma se te lo leggo in faccia! Sei tanto turbato a sentirne parlare! —

      Filippo chinò la fronte, confuso. Troppo bene l'amico gli aveva letto negli occhi, meglio che non s'immaginasse egli stesso.

      – Ma ti ho già detto che non voglio essere sospettato; – rispose Filippo dopo un istante di pausa. – Quella donna, se fosse vero quello che tu pensi di me, sarebbe sempre troppo ricca.

      – Non c'è altro? – disse Raimondo.

      – Mi pare che basti.

      – E tu non potrai chiedere la sua mano, capisco. Ma se un altro la chiedesse per te? Io, per esempio. —

      A quella uscita improvvisa, l'Aldini balzò sulla scranna.

      – Spero bene che non lo farai; – diss'egli concitato.

      Ma quell'altro non si scompose punto; anzi, guardando placidamente in viso l'amico, ripigliò:

      – E se lo avessi già fatto?

      – Tu? – gridò Filippo, impallidendo.

      – Io, sì; che ci trovi di strano? Più strano fu il tuo “non c'è male„, mentre io avevo avuto il piacere di vederti così animato nella tua conversazione con quella cara fanciulla. —

      Infastidito da quel ricordo, e da altri ancora, Filippo Aldini crollava il capo e batteva le labbra.

      – Rinfacciami sempre una frase disgraziata! – diss'egli. – Dovevo rispondere che è un sole? che è un angelo?

      – Eh, perchè no? L'avevo ben detto io, che pure amo mia moglie, e non conosco altra donna da metterle in paragone; potevi dirlo tu, che sei libero. —

      Filippo rimase un tratto in silenzio, cercando argomenti che non volevano lasciarsi trovare. Infine, di guerra stracco, girò di fianco il punto difficile, ritornando alla sua prima linea di difesa.

      – Sei curioso, col tuo modo di ragionare! – riprese. – Orbene, se pure avessi pensate tutte quelle belle cose, dovevo io dirle, lasciando scoprire Dio sa che orgogliose intenzioni? Dovevo in quella vece pensare che sarebbe stato un errore avanzarmi nella regione dei sogni. E mi son castigato, se mai, di un sogno pazzo, come quello che tu vorresti fare per me. Ma ti pare? Io, non sospettato finora, non sospettabile di calcoli così vili?.. Dunque ti prego, Raimondo, non mi parlar più del tuo sogno, e tralascia i buoni uffici che vorresti fare per me.

      – Ti ho detto che ho già aperto il fuoco.

      – Con lei?

      – Con lei, no, con sua madre. Ma, per quello ch'io ne so, dev'essere tutt'uno.

      – Tutt'uno! Che cosa ne sai?

      – Questo, che la signora Eleonora ti vede di buon occhio, e ti stima moltissimo; intendi? moltissimo; è stata la sua parola. E aggiungo che la signorina Margherita ti ha lodato come un cavaliere compito, il primo ch'ella abbia ancora conosciuto, per ingegno, per cultura, per serietà, per buon gusto; e ti fo grazia del resto. —

      Filippo si era lasciato andare, come sfinito, contro la spalliera della scranna; aveva arrovesciato il capo, e ad occhi chiusi meditava. Che cosa? Forse le parole di Margherita; forse la gravità del suo caso. Ah, quel prepotente Raimondo! faceva come voleva, senza chieder permesso, senza avvisare, e metteva lui negl'impicci.

      Intanto, il prepotente Raimondo proseguiva la sua narrazione.

      – Tornando alla signora Eleonora, le ho parlato a cuore aperto, esponendole la mia idea. S'intende che non potevo darla intieramente per mia, e che dovevo lasciarla credere un po' tua, anzi molto tua. Se ho fatto male, se ti ho compromesso, accoppami, o perdonami; ti lascio la scelta. Ma tu lasciami aggiungere che la madre è tutta per te; l'hai conquistata, pare. La buona signora, che tutti credono così orgogliosa, così piena di sè, è nel fatto una donna di gran buon senso, semplice di gusti e dotata di un ottimo cuore; non mi ha fatto altra osservazione che questa: “bisognerà parlarne a mio marito; ogni cosa dipende da lui„.

      – Ah, vedi? – gridò Filippo scuotendosi. – Ecco qui, dove incomincia il difficile. —

      Raimondo gli rispose a tutta prima con una spallata.

      – Ma che difficile! – soggiunse poscia. – Che difficile mi vai tu sciorinando? Conosco l'uomo; è ragionevole, un vero filosofo, e pensa che la boria dei quattrini va lasciata agli sciocchi. Figùrati che al suo paragone io sia un mostro di superbia. Egli dunque non farà questione di denaro, te ne sto io garante. E poi, che si canzona? un partito come te non si trova ad ogni cantonata. Non ne convieni? Hai torto. Lascio stare la tua persona, per non offendere la tua modestia; le tue doti morali, non le vuoi mettere in conto? E il tuo titolo, che ha pure il suo prezzo? Non sei ricco; ma sei pieno d'onore. E poi, che cos'è questa ricchezza? Da dove si comincia a calcolarla? Tu hai finalmente dugentomila lire al sole.

      – Dugentomila! – ripetè Filippo, tentennando la testa.

      – Al quattro per cento, sicuro; – replicò Raimondo. – La tua piccola tenuta non ne rende forse ottomila? E ancora, se Dio vuole, sarà governata alla diavola, sfruttata in prima mano dal fattore, e in seconda mano dall'agente. Ci campano tutti, e non migliorano il fondo. Questo, frattanto, vigilato un po' meglio, può rendere dieci, dodicimila lire; ed allora tu ne possiedi trecentomila, sempre al quattro per cento. Potrai dunque garantire la dote di tua moglie, se, puta caso, la batterà dalle dugento alle trecentomila. Meglio ancora; quella dote, da uomo serio, tu non la sciupi; puoi convertirla subito in terre, allargando, raddoppiando il tuo fondo. E se ciò non basta, se la dote è più vistosa ancora, non sono qua io per far fronte?

      – Tu? – disse Filippo, arrossendo fino alla radice dei capelli.

      – Io, sì, io che son ricco, e per una volta tanto me ne voglio vantare; io posso aggiungere che tu hai, depositate al mio banco, centomila lire in cartelle di rendita.

      – Una bugia! – esclamò Filippo, torcendo le labbra.

      – No, caro; dipende da me che sia una verità. Tu non conosci l'amico tuo, lasciatelo dire; non sai fin dove, al bisogno, egli porti l'amicizia, e come la intenda. Ti parlo solenne, vedi? Ma tu mi trascini pei capelli. Sono senza figli; Dio non mi ha concessa questa felicità… se pure si ha da

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