Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2. Giovanni Boccaccio
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Читать онлайн книгу Il Comento alla Divina Commedia, e gli altri scritti intorno a Dante, vol. 2 - Giovanni Boccaccio страница 16
Fu costui nominato Plato, secondo che Aristotile afferma, dalla ampiezza del petto suo. Esso, poiché piú anni ebbe udito Socrate, secondo che Agostino racconta nel quarto della Cittá di Dio, navicò in Egitto, e quivi apprese ciò che per gli egiziaci si poteva mostrare. E quindi, tirato dalla fama della dottrina pittagorica, venutosene in Italia, da quegli dottori, li quali allora in essa fiorivano, assai agevolmente apprese ciò che per loro si tenea. Della sua scienza fu fatta, [ed è ancora], maravigliosa stima quasi da tutti quegli che aʼ tempi chʼeʼ romani erano nel colmo del lor principato, eran famosi uomini; e ancora ne la fanno i cattolici filosofi, affermando in molte cose la sua dottrina esser conforme alla veritá cristiana. Fu, oltre a ciò, in costumi splendido e nel cibo temperatissimo. Fu oltremodo dalla concupiscenza della carne stimolato, intanto che, per poterla alquanto domare, e vita solitaria disiderando, potendo in altre parti assai eleggere la sua solitudine, alcuna altra non ne volle che una villetta, chiamata Accademia, la qual non solamente rimota era da ogni umano consorzio, ma ella era per pessimo aere pestilente: e questa ad ogni altra prepose, estimando la sua infezione dovere poter porre modo a domare la libidine sua. Quivi di ricchezze né dʼumana pompa curandosi, visse infino nellʼetá di anni ottantuno, secondo che scrive Seneca a Lucillo nella sessantunesima epistola; avendo molti libri scritti e scrivendo continuamente, si morí, lasciati appresso di sé molti deʼ suoi uditori solennissimi filosofi.
«Che innanzi agli altri», sí come piú degni filosafi, «piú presso gli stanno».
«Democrito» (supple) vidi. Democrito fu ateniese, e fu il padre suo sí abbondante di ricchezze, che si legge lui aver dato un pasto al re Serse, quando venne in Grecia, e con lui a tutto il suo esercito, che scrive Giustino fosse un milione dʼuomini dʼarme. Dopo la morte del quale, Democrito, dato tutto aʼ filosofici studi, riserbatasi di sí gran ricchezza una piccola quantitá, tutto il rimanente donò al popolo dʼAtene, dicendo quella essere impedimento al suo studio. Esso, secondo che Giovenale scrive, essendo nella piazza, era usato di ridere di ciò che esso vedeva agli uomini fare; e, domandato alcuna volta della cagione, rispose: – Io rido della sciocchezza di tutti quegli li quali io veggio, percioché io mʼaccorgo che con lʼanimo e col corpo tutti faticano intorno a cose, che né onor né fama lor posson recare, né con loro, oltre a ciò, far lunga dimora. – Costui, percioché estimò il vedere esser nimico delle meditazioni, e grandissimo impedimento degli studi per poter liberamente a questi vacare, si fece cavar gli occhi della testa. Altri dicono lui aver ciò fatto, perché il vedere le femmine gli era troppo grande stimolo e incitamento inespugnabile al vizio della carne. E, domandato alcuna volta che utilitá si vedesse dʼaverlo fatto, nulla altro rispose, se non che, per quello, era dʼuno piú che lʼusato accompagnato, e questo era un fanciul che ʼl guidava: benché Tullio, nel quinto delle Quistioni tusculane, dice questa essere stata risposta dʼAsclepiade, il quale fu assai chiaro filosofo e similmente cieco. Fu nondimeno uomo di grande studio e di sottile ingegno, quantunque deʼ principi delle cose tenesse unʼopinione strana e varia da tutte quelle degli altri filosofi. Esso estimava tutte le cose procedere dallʼuno deʼ due principi, o da odio o da amore: e poneva una materia mista essere, nella quale i semi di tutte le cose fossero, e quella diceva chiamarsi «caos», il che tanto suona quanto «confusione»; e di questa affermava che a caso, non secondo la diliberazione dʼalcuna cosa, ogni animale, ogni pianta, ogni cosa che noi veggiamo, nascere. E questo chiamava «odio», in quanto le cose che nascevano, dal lor principio, sí come da nimico, si separavano; poi, dopo certo spazio di tempo corrompendosi, tutte si ritornavano in questa materia chiamata «caos», e questo appellava «tempo dʼamore e dʼamistá». E cosí teneva questi esser due principi formali, essendo questo caos principio materiale. Fu, oltre a questo, costui grandissimo magico, e dopo Zoroaste, re deʼ batriani, trovatore di questa iniqua arte, molto lʼaumentò e insegnò. Dice adunque per le predette opinioni lʼautor di lui «cheʼl mondo a caso pone» esser creato e fatto, e senza alcuna movente cagione: del quale Tullio nel quinto libro delle Quistioni tusculane dice: «Democritus, luminibus amissis, alba scilicet discernere et atra non poterat: at vero bona, mala, aequa, iniqua, honesta, turpia, utilia, inutilia, magna, parva poterat; et sine varietate colorum licebat vivere beate, sine notione rerum non licebat; atque hic vir impediri animi aciem aspectu oculorum arbitrabatur: et cum alii persaepe quod ante pedes esset non viderent, ille infinitatem omnem pervagabatur, ut nulla in extremitate consisteret».
«Diogene». Diogene cui figliuol fosse, o di qual cittá, non mi ricorda aver letto, ma lui essere stato solenne filosofo, e uditore di Anassimandro, molti il testimoniano: e similmente lui essere rimaso di ricchissimo padre erede. Il quale, come la veritá filosofica cominciò a conoscere, cosí tutte le sue gran ricchezze donò agli amici, senza altra cosa serbarsi che un bastone per sostegno della sua vecchiezza e una scodella per poter bere con essa: la qual poco tempo appresso gittò via, veggendo un fanciullo bere con mano ad una fonte. E cosí, ogni cosa donata, primieramente cominciò ad abitare sotto i portici delle case e deʼ templi; poi, trovato un doglio di terra, abitò in quello; e diceva che esso meglio che alcun altro abitava, percioché egli aveva una casa volubile, la quale niuno altro ateniese aveva: e quella nel tempo estivo e caldo volgeva a tramontana, e cosí avea lʼaere fresco senza punto di sole; e il verno il volgeva a mezzogiorno, e cosí aveva tutto ʼl dí i raggi del sole che ʼl riscaldavano. Fu negli studi continuo e sollecito mostratore agli uditori suoi. Tenne una opinione istrana dagli altri filosofi, cioè che ogni cosa onesta si doveva fare in publico; ed eziandio i congiungimenti deʼ matrimoni, percioché erano onesti, doversi fare nelle piazze e nelle vie: il quale perché atto di cani pareva, fu cognominato «cinico» e principe della setta deʼ cinici.
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