Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8. Edward Gibbon

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Storia della decadenza e rovina dell'impero romano, volume 8 - Edward Gibbon

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bastante per fare a pezzi i dispregevoli loro assalitori. Qualunque lode meritar si possa l'ordire degli Schiavoni, esso è contaminato dalla bassa e deliberata crudeltà che sono accusati di aver esercitata sopra dei loro prigionieri. Senza distinzione di grado, di sesso o di età, questi venivano impalati o scorticati vivi, o sospesi tra quattro pali, e fatti morire a colpi di mazza, o veramente chiusi in qualche vasto edificio, ed ivi lasciati perir nelle fiamme insieme con le spoglie ed il bestiame che impedir poteva la marcia di questi vincitori selvaggi20. Forse da una relazione più imparziale si sarebbe sminuito il numero, e qualificata la natura di tali orribili azioni; e le crudeli leggi della rappresaglia avranno potuto qualche volta servir loro di scusa. Nell'assedio di Topiro21, la cui ostinata difesa avea fieramente irritato gli Schiavoni, essi trucidarono quindicimila uomini; ma risparmiarono le donne ed i fanciulli. I prigionieri di maggior prezzo erano sempre posti in serbo per impiegarli al lavoro o per ricavarne il riscatto: non rigorosa la schiavitù, e pronti e moderati erano i termini della liberazione de' prigionieri. Ma il suddito, ossia l'istorico di Giustiniano, esalò il giusto suo sdegno nel linguaggio della querela e del rimprovero, e Procopio ha confidentemente affermato, che durante un regno di trentadue anni, ciascun'annua incursione dei Barbari avea rapito dugentomila abitanti all'Impero romano. L'intera popolazione della Turchia Europea, che corrisponde, a un dipresso, alle province di Giustiniano, non sarebbe forse in istato di somministrare sei milioni d'individui, che sono il prodotto di quell'incredibile computo22.

      Nel mezzo di queste oscure calamità, l'Europa sentì l'urto di una rivoluzione, che prima disvelò al Mondo il nome e la nazione de' Turchi. Somigliante a Romolo, il fondatore di quel popolo marziale fu allattato da una lupa che poscia lo fece padre di una numerosa posterità, e l'immagine di questa bestia, nelle bandiere dei Turchi, conservò la memoria, o piuttosto suggerì l'idea di una favola, che fu inventata, senza alcuna relazione scambievole, dai pastori del Lazio, e da quelli della Scizia. Nell'eguale distanza di duemila miglia dal mar Caspio, dal mar Glaciale, dal mar della China, e da quello del Bengala, sorge una gran catena di monti, che è il centro o forse la sommità dell'Asia; essa, nella favella delle differenti nazioni, fu chiamata Imao, e Caf23, ed Altai, e le Montagne d'Oro, e la Cintura della Terra. I fianchi delle rupi producevano minerali; e le fornaci del ferro24 ad uso della guerra, erano lavorate dai Turchi, la più spregiata porzione degli schiavi del Gran Can dei Geugeni. Ma durar non doveva il loro servaggio, se non fin tanto che sorgesse un ardito ed eloquente condottiero, il quale persuadesse i suoi compatriotti che le stesse armi, fabbricate pei loro padroni, potevano divenire nelle proprie lor mani gl'istromenti della libertà e della vittoria. Sbucaron essi dai lor monti25; uno scettro fu il guiderdone del consiglio di lui; e l'annua cerimonia, in cui un pezzo di ferro veniva arroventato nel fuoco, ed il Principe ed i suoi nobili maneggiavano successivamente un martello da fabbro ferraio, ricordò di secolo in secolo l'umile professione ed il ragionevole orgoglio della nazione Turchesca. Bertezena, primo lor Capo, segnalò il valore di essi ed il suo in fortunati combattimenti contro le vicine tribù; ma quando egli presunse di chiedere in matrimonio la figlia del gran Cane, l'insolente domanda di uno schiavo e di un artigiano con disprezzo fu rigettata. Una più nobile alleanza d'una principessa Chinese lo risarcì di tale disgrazia; e la decisiva battaglia che quasi estirpò la nazione dei Geugeni, fondò nella Tartaria il nuovo e più potente impero dei Turchi. Essi regnarono sul Settentrione; ma il fedele amore che serbavano per le montagne dei padri loro, mostrò il lor modo di pensare intorno alla vanità delle conquiste. Il campo reale di rado perdè di vista il monte Altai, d'onde il fiume Irtish discende ad irrigare i ricchi pascoli dei Calmucchi26, i quali nutrono i montoni ed i buoi più grossi del mondo. Fertile n'è il suolo, ed il clima temperato e mite. Quella fortunata regione non conosceva nè la pestilenza, nè i terremoti; il trono dell'Imperatore era rivolto verso Oriente, ed un lupo d'oro, innalzato sopra una lancia, parea custodire l'ingresso della tenda di lui. Uno dei successori di Bertezena rimase adescato dal lusso e dalla superstizione della China; ma il suo disegno di fabbricar templi e città fu dissipato dalla ingenua sapienza di un Barbaro consigliere. «I Turchi, disse costui, non uguagliano in numero la centesima parte degli abitatori della China. Se noi pareggiamo la loro potenza, ed eludiamo i loro eserciti, ciò avviene, perchè andiamo vagando senza fisse abitazioni, non attendendo che alla guerra ed alla caccia. Siamo noi forti! Ci spingiamo innanzi, e conquistiamo. Siamo noi deboli! Ci ritiriamo e ci nascondiamo. Ma se i Turchi si rinserrano dentro le mura delle città, la perdita di una battaglia trarrà seco la distruzione del loro impero. I Bonzi non predicano che pazienza, umiltà e rinunzia al mondo. Tale, o Re, non è la religion degli Eroi». Essi adottarono con minor ripugnanza le dottrine di Zoroastro, ma la maggior parte della nazione continuò a serbare, senza esame, le opinioni, o per meglio dire la pratica dei loro antenati. Alla suprema divinità erano riserbati gli onori del sacrifizio; essi confessavano, con rozzi inni ciò che dovevano all'aria, al fuoco, all'acqua ed alla terra; ed i loro sacerdoti traevano qualche profitto dall'arte della divinazione. Le loro leggi, non scritte, erano rigorose ed imparziali: il furto veniva punito colla restituzione del decuplo: l'adulterio, il tradimento e l'uccisione traevano con sè la pena di morte, ma nessun castigo pareva loro troppo severo pel raro ed inespiabile delitto di pusillanimità. Raccolto avendo sotto il loro stendardo le vinte nazioni, la cavalleria de' Turchi, tra uomini e cavalli, veniva orgogliosamente computata per milioni; uno dei loro eserciti effettivi era composto di quattrocentomila soldati, ed in meno di cinquant'anni essi furono in relazione di guerra o di pace coi Romani, coi Persiani e coi Chinesi. Nei loro limiti settentrionali si può discoprire qualche vestigio della forma e della situazione del Kamtchatka, di un popolo di cacciatori e di pescatori le cui slitte erano tirate da cani, e le abitazioni sepolte sotterra. I Turchi ignoravano l'astronomia; ma le osservazioni fatte da qualche dotto Chinese, con un gnomone di otto piedi, determinano il campo reale nella latitudine di quarantanove gradi, e segnano i loro progressi sino a tre od almeno a dieci gradi dal circolo polare27. Fra le meridionali conquiste loro, la più splendida fu quella dei Neftaliti, od Unni bianchi, popolo incivilito e guerriero che possedeva le trafficanti città di Bochara e di Samarcanda, che vinto aveva i monarchi della Persia, e portato le vittoriose sue armi sulle rive e forse alla foce dell'Indo. Dalla parte di Ponente, la cavalleria turca s'innoltrò fino alla palude Meotide. Essi passarono questo lago sul ghiaccio. Il Can che abitava ai piedi del Monte Altai, spedì l'ordine che si assediasse Bosforo28, città che si era volontariamente sommessa ai Romani, ed i cui Principi erano stati anticamente gli amici di Atene29. A levante i Turchi invadevano la China, ogni volta che rilassato vi era il vigor del governo; e l'istoria dei tempi ci narra che essi abbattevano i loro pazienti nemici, come si miete il canape e l'erba dei campi; e che i Mandarini encomiarono la sapienza di un Imperatore il quale respinse questi Barbari con lancie d'oro. L'estensione del selvaggio impero dei Turchi trasse uno dei loro monarchi a stabilire tre subordinati Principi del proprio sangue, i quali tosto dimenticarono i doveri della riconoscenza e della fedeltà. Snervati furono i conquistatori dal lusso, il quale sempre riesce fatale fuori che ad un popolo industrioso. La politica della China eccitò le vinte nazioni a ricuperare l'indipendenza perduta; e la potenza dei Turchi non oltrepassò il periodo di duecent'anni. Il risorgimento del nome loro ed il loro dominio nelle contrade meridionali dell'Asia, sono avvenimenti di una età posteriore; e le dinastie che succederono ai loro primi sovrani, possono passarsi in silenzio poichè l'istoria loro non ha verun legame colla decadenza e caduta del Romano Impero30.

      Nella rapida carriera delle conquiste, i Turchi assaltarono e soggiogarono la nazione degli Ogori o Varconiti sulle rive del fiume Til che vien denominato il Nero pel bruno color delle sue acque, o per le sue cupe foreste31. Ucciso fu il Can degli Ogori, insieme con tre centomila suoi sudditi, ed i loro cadaveri ingombravano uno spazio di quattro giornate di viaggio. Quelli tra loro che sopravvissero, si assoggettarono alla forza ed alla clemenza dei Turchi; ed una picciola porzione, di circa ventimila guerrieri, antepose

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<p>20</p>

Procopio riferisce od ingrandisce le crudeltà degli Schiavoni (Goth. l. 3 c. 29, 38). Quanto al mite e liberale loro procedere co' prigionieri, possiamo appellarci all'autorità, alquanto più recente, dell'imperatore Maurizio (Stratagem. l. 2 c. 5).

<p>21</p>

Topiro giaceva presso Filippi nella Tracia o Macedonia, dirimpetto all'isola di Taso, dodici giornate distante da Costantinopoli (Cellario, t. 1 p. 676, 840).

<p>22</p>

Se pongasi fede alla maligna testimonianza degli Aneddoti (c. 18), queste incursioni aveano ridotto le province meridionali del Danubio allo stato delle solitudini Scitiche.

<p>23</p>

Da Caf a Caf; che una geografia più ragionevole può forse interpretare dall'Imao al monte Atlante. Secondo la filosofia religiosa de' Maomettani, la base del monte Caf è di smeraldo, il cui riflesso produce l'azzurro del cielo. La montagna è dotata di un'azione sensitiva nelle sue radici o nervi; e la vibrazion loro, dipendente dal cenno di Dio, produce i terremoti (D'Herbelot, p. 230, 231).

<p>24</p>

Il ferro della Siberia è il migliore ed il più abbondante del mondo, e, nelle parti meridionali, l'industria dei Russi ne scava al presente più di sessanta miniere (Strahlenberg, Storia della Siberia, p. 342, 387. Voyages en Siberie par l'abbé Chappe d'Auteroche, p. 603-608, ediz. in 12. Amsterdam, 1770). I Turchi offrivano ferro per sale: eppure gli ambasciatori Romani, con istrana ostinazione, persistevano in credere, che un artifizio era desso, e che il loro paese punto non ne produceva (Menandro in Excerpt. Leg. p. 152).

<p>25</p>

Di Irgana-Kon (Abulghazi Kan, Hist. Généalog. des Tatars, P. 2 c. 5, p. 71, 77 c. 15 p. 155). La tradizione conservata da' Mogolli de' 450 anni ch'essi passaron ne' monti, concorda coi periodi Chinesi dell'istoria degli Unni e dei Turchi (De Guignes, t. 1 P. 2 p. 376) e colle venti generazioni dalla loro restaurazione sino a Zingis.

<p>26</p>

Il paese de' Turchi, ora de' Calmucchi, è descritto benissimo nella Storia Genealogica p. 521-562. Le curiose note del traduttore Francese sono ampliate e riordinate nel secondo volume della Traduzione inglese.

<p>27</p>

Visdelou, p. 141, 151. Questo fatto si può qui introdurre, benchè, strettamente parlando, esso appartenga ad una tribù subordinata e che venne dopo.

<p>28</p>

Procopio, Persic. l. 1 c. 12, l. 2 c. 3. Peyssonel (Observ. sur les Peup. Barb. p. 99, 100) stabilisce la distanza che corre tra Caffa e l'antica Bosforo, in 16 lunghe leghe tartare.

<p>29</p>

Vedi, in una Memoria del De Boze (Mem. de l'Acad. des Inscrip., t. VI p. 549-565), gli antichi Re e le medaglie del Bosforo Cimmerio; e la gratitudine di Atene, nelle orazioni di Demostene contro Leptine (negli Oratori Greci di Reiske, t. 1 p. 466, 467).

<p>30</p>

Intorno all'origine ed alle rivoluzioni del primo impero Turchesco, ne ho tolto le particolarità dal De Guignes (Hist. des Huns, t. 1 P. 2 p. 367-462), e da Visdelou (suppl. à la Biblioth. Orient. d'Herbelot, p. 82-114). I cenni Greci e Romani sono raccolti in Menandro (p. 108-164) ed in Teofilacte Simocatta (l. VII c. 7, 8).

<p>31</p>

Il fiume Til, o Tula, secondo la geografia di De Guignes (t. 1 P. 2 p. 58 e 352), è una piccola ma gentil riviera del deserto, che cade nell'Orhon, Selinga, ecc. Vedi Bell, Viaggio da Pietroburgo a Pechino (vol. 2 p. 124); non per tanto la descrizione ch'egli fa del Keat, giù pel quale discese nell'Oby, rappresenta il nome e gli attributi del fiume nero (p. 139).