La vita italiana nel Trecento. Various
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Ora, proprio la condizione opposta era quella che prevaleva in Italia nei secoli 13.º e 14.º; dove la moltiplicità dei regimi e delle signorie esigeva gran consumo di uomini pubblici, gran ressa degli intelletti intorno agli argomenti sui quali ogni forza di governo si regge.
Ma se dai tipi individuali scendiamo a considerare i criteri delle maggioranze, le impressioni a cui ubbidivano, i sentimenti dai quali erano mosse nella vita pubblica, nessun orgoglio pur troppo possiamo trarre dalla rimembranza di quei nostri antenati.
Il buon seme italico, la tradizione del valore, il disinteresse patriottico erano raccolti da alcune menti privilegiate, sollecite dell'avvenire. Ma ad ideali di questa natura non si prestavano che assai fuggevolmente i complessi politici della nazione.
Allo sforzo vigoroso sopportato per tanti anni dai Comuni, vogliosi di emancipazione civile e sociale, era succeduto un periodo di stanchezza, che produceva tumulti ma non elaborava resistenze. Gli animi erano depressi ed avevano perduta la fede. Non eccitavano più ardori le Leghe fondate per combattere nemici comuni. Al proprio nemico ciascuno si opponeva o si assoggettava da sè. Nessuno spingeva lo sguardo a confini di patria, al di là delle mura del proprio nido. L'Italia aveva ancora scatti di sdegno o fenomeni d'entusiasmo; non aveva più disegni politici o coesione d'indipendenza.
E scatto di sdegno, non altro, fu quella rivolta dei Vespri Siciliani, ond'ebbe per tanti secoli quasi usurpato onore Giovanni da Procida e vantaggio immediato la stirpe dei re d'Aragona. Fenomeno d'entusiasmo, non altro, fu quella pace giurata, fra le lacrime, da trecento mila guerrieri sui campi di Paquara; dove frate Giovanni da Vicenza precorse di oltre cinque secoli il buon parroco Lamourette, nella illusione di spegnere con cinque minuti di commozione l'incendio suscitato dall'irrompere delle passioni umane.
Queste avevano origini e radici in troppi fatti o recenti o contemporanei, perchè non fossero aizzate in Italia ad ogni turbamento di leggi morali.
La lotta aspra e implacabile fra il Papato e l'Impero, – i rancori lasciati dalla distruzione dei castelli feudali a beneficio delle città murate, – la venuta in Italia di quel primo Carlo francese che la politica pontificia chiamava contro gli Svevi, come dugent'anni dopo un altro Carlo sarebbe stato chiamato contro gli Aragonesi, – finalmente gli effetti politici e sociali lasciati in tutta Europa dalle crociate, – erano tutte cause primordiali, atte ad inoculare nel sangue italiano il lievito esclusivo della violenza.
Quindi violenti i principi nell'usurpare gli Stati, violente le congiure per rovesciarli; violenti i predicatori di scismi e di eresia; violentissimi i pontefici, che ne reprimevano colla forza e coi supplizi l'apostolato; ad ogni insidia ricorrevano i vinti, nessuna pietà frenava le reazioni dei vincitori; in Palestina s'erano cominciate le stragi benedette da fanatismo religioso, – si continuavano in Italia, dove quel fanatismo trovava rinforzo in avidità di dominio; l'uccidere non bastava più, bisognava tormentare; e un tirannello veneto, che non sfuggì alla vendetta di Dante, Ezzelino da Romano, come aveva emulato Nerone nella varietà delle torture, lo avrebbe superato ben presto nel numero dei torturati.
Che esempi, che freni potevano trarre le masse italiane da una compagine politica adagiatasi in mezzo a tali sozzure? dove avrebbero trovato la virtù di reagire contro le loro passioni, mentre alle proprie si abbandonavano con tanta impudenza i personaggi posti a capo dei governi e destinati ad essere i saggi e i prudenti nella politica italiana?
Ecco dunque il fondamento dello spirito pubblico nei secoli di cui vi discorreranno i vostri conferenzieri.
Dopo il mille, quel fondamento era stato il bisogno della libertà; e la violenza non era apparsa che il mezzo necessario per distruggere il feudalismo.
Dopo il 1200, la libertà genera i commerci e le industrie; ma la violenza rimane come la forma inspiratrice d'ogni reazione e d'ogni abuso, di principi o di moltitudini.
Due correnti prevalgono e non possono fondersi. Una spinge verso la ricchezza, verso i commerci, verso le soddisfazioni dell'arte e del sodalizio letterario; l'altra spinge alla potenza che non è fine a sè stessa, ma istromento d'arbitrii e di tirannie. Nella prima s'inalvea la vita privata, la seconda trascina la vita pubblica. La quale, inquinata in ogni sua parte da terrori o da vendette, uscita da ogni traccia di legge, divenuta asilo d'ogni turpitudine di scherani o di avventurieri,
mena gli spirti nella sua rapina
e converte due secoli di storia, pieni d'una letteratura così robusta e d'un'arte così squisita, in una specie di leggenda paurosa, che governa ancora, nei suoi apprezzamenti sull'Italia, il pregiudizio popolare europeo.
Ed eccovi chiara la genesi delle fazioni italiane. Queste non sorgono per fatti contemporanei, ma preesistono a quelli e costituiscono, per così dire, i quadri, entro i quali i fatti medesimi si versano e si distribuiscono.
Nel '300 in Italia si nasce faziosi, come si nasce gialli nella China o negri nel Tombuctù. La fazione si assorbe col latte materno, s'impara dal precettore. I giuochi dei fanciulli sono, come le passioni dei grandi, basati sul guerreggiar delle parti. Si può entrare e si può non entrare in un ciclo di attività politica; ma, quando vi si entra, nessuno pensa ai bisogni complessivi di un paese; l'interesse della fazione a cui si appartiene tien luogo di fede, di patriottismo, di virtù.
Vi ha detto acutamente lo scorso anno l'attuale ministro della pubblica istruzione1 che, distruggendo nelle campagne i ricoveri del feudalismo, le città trasportavano nell'interno delle mura quella guerra civile che credevano aver terminata al di fuori.
Infatti, quando posavano le guerre fra Svevi e Angioini, fra papi e imperatori, nascevano le guerre fra l'una e l'altra delle città italiane; fra Genova e Venezia, fra Pisa e Firenze, fra Modena e Bologna, fra Piacenza e Milano.
Quando fra le città s'era fatta la pace o una pace, il dissidio interno cittadino non tardava a scoppiare; dissidio tra nobili e plebei, tra governanti e governati, tra rioni occidentali e rioni orientali, tra antichi servi orgogliosi della vittoria e antichi feudali memori della sconfitta.
Se anche a siffatte querele veniva meno la materia o la lena, il bisogno di lottare sorgeva da cause minori. Si cominciava con una rivalità d'individui, si continuava coll'ostilità delle famiglie a cui questi individui appartenevano; ogni famiglia allargava le sue ire alle famiglie alleate; si finiva colla tradizionale divisione politica.
Così, e non altrimenti, nascevano le fazioni interne, che lacerarono per tanti anni le maggiori città, – i Buondelmonti e gli Uberti a Firenze, i Panciatichi e i Cancellieri a Pistoja, i Lambertazzi e i Geremei a Bologna, i Cappelletti e i Montecchi a Verona, i Beccaria ed i Langosco a Pavia, a Mantova i Bonacolsi e i Gonzaga. Su più vasto campo, e destinati a maggiori dominazioni, i Colonna e gli Orsini a Roma, i Fieschi e i Doria a Genova, i Visconti e i Torriani a Milano sono altrettante variazioni del fenomeno fondamentale.
Ricordare gli episodi da cui sorsero quelle inimicizie di carattere secolare, ci porterebbe assai lungi. Ogni cronista riporta quelli della propria città, e tali narrazioni si seguono, rassomigliandosi.
Un delitto v'è quasi sempre all'origine di queste contese; un delitto d'ambizione, più sovente un delitto d'amore.
Voi conoscete la storia delle vostre famiglie; quella giovane Donati, per cui s'accende Buondelmonte dei Buondelmonti, dimenticando il preso impegno di sposare una fanciulla degli Amedei, indi l'ira di questi, che si estende agli Uberti, antichissimi ottimati di Firenze; e il consiglio di famiglia per deliberare sulla vendetta da prendersi; e l'insidioso motto di Mosca dei Lamberti: cosa fatta, capo ha. Voi vedete di qua l'appostamento degli Uberti e degli Amedei sull'angolo settentrionale del Ponte vecchio; e il bel Buondelmonte che s'avanza d'oltr'Arno, vestito di bianco,
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Pasquale Villari.