La vita Italiana nel Risorgimento (1815-1831), parte I. Various
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Fra le letture di quest'anno sul Risorgimento italiano, non Vi dispaccia che una, ed è questa mia, rimonti pe' tempi, e rannodi e rattesti con l'antica storia della patria italiana l'ordine nuovo di cose, che ha trasformate le relazioni nostre con le altre nazioni, integrando il diritto, iniquamente impeditoci, d'essere una di esse. La genesi storica dell'unità italiana, che io mi studierò di tracciar sommariamente nella breve ora concessami, dimostra che l'unità nella quale l'Italia oggi si afferma ed è, non ce l'hanno data gl'impeti della rivoluzione, nè i maneggi delle sètte, nè le espansioni d'un'ambizione dinastica; ma che ad essa per lento e involuto procedimento hanno dovuto far capo, col non fermarsi mai in nessun'altra forma organica e sospinti sempre dalla coscienza del pensiero italiano, gli elementi costitutivi della nostra nazionalità.
Il tema, come vedete, esce alquanto, da capo e da piedi, fuor de' limiti cronologici delle Conferenze di quest'anno, proponendomi io, fra la Vita italiana dei passati secoli e il Risorgimento italiano, dal quale avrà nella storia titolo d'onore il secolo nostro, disegnarvi come una linea di congiunzione, i cui estremi risalgono e discendono, fuori di quei confini, necessariamente. A ogni modo, se riuscirò a cattivarmi, come altre volte, la vostra attenzione benevola, meglio avere sconfinato non dispiacendovi, che se vi avessi, dentro i confini dal 15 al 31, fatta parer lunga o vuota quest'ora del 97 che mi fate l'onore di passare con me.
II
La tesi della tradizione unitaria (com'è stata chiamata in lodati studi di questi ultimi decennii), della tradizione unitaria nella storia d'Italia, è una di quelle che richiedono, ad essere tenute ne' loro veri termini, la maggiore indipendenza di spirito da ogni, sia pur generoso, preconcetto ideale, come la maggior cautela contro o le gretterie d'una critica troppo materiale e letterale ai fatti, o le negazioni passionate e partigiane. Che innanzi al decennio dal 1861 al 1870 la unità non soltanto politica, ma anche la storica, o etica che voglia dirsi, sia mancata, la prima sempre, la seconda quasi sempre, nella vita reale ed effettiva di quella che per l'idioma è pur da dieci secoli la nazione italiana, apparisce innegabile. Che, d'altro lato, la figura della unità nazionale abbia balenato; sia dai fatti, nel loro atteggiarsi e connettersi; sia in idea, o a menti elette di pensatori, o alla ispirata fantasia di poeti, o al sentimento magnanimo di cittadini operanti; si comprova positivamente senza sussidio di interpretazioni. Ma accettata l'una cosa e l'altra, rimane a vedersi come questo disgregato procedimento di quasi altrettante storie; quante le regioni che il dialetto e la geografia fisica ha differenziate, e quante altresì le energie di Comune vivacissime e contrastanti nel seno stesso di ciascuna regione; abbia, questo procedimento, pur fatto capo all'unità: e non per violenze di conquista, nè per isforzamento settario contro la volontà e l'acquiescenza dei più, ma vi abbia fatto capo siccome ad una suprema necessità di diritto e di fatto, ed inoltre siccome ad una giustizia dinanzi alla quale debba inchinarsi chi voglia conservar fede in una Provvidenza che prepara e indirizza a destinati termini le cose umane.
III
Conquistata, più faticosamente che tutto il resto del mondo, dalla predestinata fra le città sue ad essere, di civiltà in civiltà, l'urbe mondiale; l'Italia, che da questa sua figlia superba, Roma, non aveva potuto avere una unità latina, vi si trovò (strano a dirsi) più prossima, dopo che il giardino peninsulare, dalle valli gallo-padane alla costiera greco-italica, venne a mano dei Barbari, che vi eseguivano ferocemente le vendette della umanità conculcata. Da Teodorico a Carlo Magno, la storia di cotesti Barbari, che con Odoacre avean rovesciato il simulacro d'Impero rimasto a Roma disfatta, è pure, ciò che non era mai stata la storia dell'Impero, una storia d'Italia; e la gesta Gotica, e la rivendicazione Bizantina, e il poderoso regno Longobardico, hanno sempre per obietto e subietto, sia regno, sia esarcato, siano ducati in vincolo di regia signoria, hanno, dico, per loro base, uno stato e dominio italiano. È quindi fatalmente logico, che col restaurarsi dell'Impero d'Occidente, tale condizione di cose, nata dalle rovine di quello, si muti: sotto il quale rispetto, la caduta dei Longobardi, quando anche si giungesse a provare che le loro relazioni con le plebi latine furono assolutamente di tiranni verso schiavi, riman tuttavia la caduta d'una forza, assimilatrice, fosse pur violenta, di elementi italiani a costituire nazione italiana. Catastrofe degna, invero, che il più grande Poeta nostro di questa età ripensatrice del passato, il Manzoni, vi abbia esercitate sopra le mirabili facoltà dell'acume suo critico, per circondarla poi di tanta pietà, quanta emana dalla virtù guerriera di Adelchi, dalle cocenti lacrime del vecchio re tradito e consegnato, dalla perdonatrice agonia della ripudiata Ermengarda.
Carlo Magno restaura nominalmente l'Impero, e instaura effettivamente il Papato politico: e condanna l'Italia a neanche pensare l'unità sua di nazione: subordinare il concetto della libertà ai diritti supremi di cotesto Impero ideale; di cui addiviene «il giardino», ma non la casa; e la propria indipendenza tollerare mescolata alle vicende di esso e alle relazioni di esso coi Pontefici, diventati per donazione, questa volta non fittizia pur troppo (sebbene mal definita e sin da principio litigiosa), sovrani in Italia, senza ch'e' possano mai, perchè obbligati al loro universal magistero affermarsi ed operare da sovrani italiani. E da Carlo Magno, attraverso a quella sua fantasmagoria di Regno Italico associato alla dignità Imperiale, e poi per gli Ottoni, gli Svevi, gli Asburgo, i Lussemburgo, gli Austriaci, sino a Carlo V, l'Impero e il Papato politico sovrastanno alla vita italiana di ben sette secoli; lungo i quali la evoluzione del Comune, feconda di operosità sociale, splendida di rinnovata civiltà, si compie energicamente, e si dissolve nei Principati, senza che nessuna delle maggiori Repubbliche, nessuna di quelle ambizioni comitali o durali, nessuna di quelle avventure di regia conquista dopo che sul cadere del secolo XV l'Alpe è dischiusa novamente alle armi straniere, raccolga intorno a sè in un concetto o in un proposito, foss'anche solamente d'una lega nazionale, l'Italia. Vengono sì a questa Italia i Cesari tedeschi a cingervi la corona di Roma: ma una corona storica: poichè l'«alma Roma» è diventata in realtà «il loco santo» dove il Papa incoronatore pontefica e, non senza contrasti anche sanguinosi, signoreggia e regna: e Cesare e Papa, sovrani e signorie regionali comunali, ciascuno procacciante per sè, sono, rispetto all'italianità della penisola, altrettante forze negative, il cui positivo resultato è che una Italia non sia. Non sia: mentre fra i contrasti di coteste forze, nell'esercizio delle quali è trasferita e dispersa la legittima virtù dell'esser suo di nazione, tuttavia si contesse l'istoria d'Italia: atteggiandosi spesso il Papato politico a propugnatore di diritti italici, e talvolta l'Impero accennando a voler essere, non una nominalità, bensì una cosa, italiana: ma in effetto ambedue le istituzioni subordinando ciascuna all'immanente interesse proprio queste mutabili contingenze della loro politica. Così nella rivendicazione che le città della gloriosa Lega lombarda fanno dei loro diritti contro l'Impero ferocemente invasore, Alessandro III benedice le loro armi contro il comune nemico: ma appena riconciliato col Barbarossa, abbandona i vincitori di Legnano, che la pace di Costanza restituirà fedeli al Cesare inutilmente vinto. Così Innocenzo III seconderà l'impresa italica di Ottone IV, favorirà altresì fino ad un certo segno le libertà dei Comuni; ma l'una cosa e l'altra sottoponendo a quel preconcetto di teocrazia, che iniziato vigorosamente dall'austero e virtuoso Gregorio VII, non sarà da Innocenzo sospinto alla massima altezza, che per finire, non ancor passati cent'anni, nelle mondane macchinazioni di Bonifazio VIII tanto ignobilmente, quanta è la distanza morale che disgiunge il trionfo di Canossa dallo sfregio d'Anagni. Che se guardiamo agli imperatori, e propriamente ai tre che soli, forse, ebbero ed accettarono dai fatti occasione ed impulso a favorire in Italia un assetto politico nazionale, Ottone IV, Federigo II, Arrigo VII, l'opera loro, ove ben si consideri, non assunse mai il carattere d'una obiettiva costituzione delle cose italiane, qualunque dovesse poi o potesse essere la forma del reggimento; ma fu piuttosto un destreggiarsi tra la fazione loro imperiale e quella chiesastica, con intenzioni più o men generose verso la libertà popolare. Le quali buone intenzioni certo non mancarono nemmeno ad alcuni Pontefici;