La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte III. Various
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AUTORI E ATTORI DRAMMATICI
Signore e Signori,
Il Voltaire, con una delle sue arguzie felici, definì il pubblico de' teatri un animale contemperato di quattro nature diverse: un asino, una scimmia, un pappagallo, un serpente. Non è difficile intenderne la ragione. L'asino, perchè il pubblico ha troppo spesso le orecchie lunghe; la scimmia, perchè un applauso di gente stipendiata ad applaudire basta non di rado per far battere le mani a tutti quanti gli spettatori; il pappagallo, perchè il giudizio di pochi diviene subito il giudizio o il pregiudizio dei più, che forse non avranno pensato mai nè sentito a quel modo; il serpente poi… perchè il Voltaire era stato qualche volta fischiato anche lui!
Le quattro nature mi sarebbe facile rintracciarle e dimostrarle a una, a una anche nel pubblico italiano dal 1849 al 1861, a proposito degli attori che si presentarono e delle opere che si rappresentarono allora su' nostri teatri: mi sarebbe facile dimostrarvele se la strettezza del tempo mi concedesse di abbondare in aneddoti. Ma almeno un'osservazione credo di dovere aggiungere qui, prima di mettere da parte la maliziosa definizione del Voltaire; ed è che per tali anni ci fu in esso pubblico anche un po' della volpe e anche un po' del leone: della volpe per la sottigliezza furbesca del deludere e mettere nel sacco, come nell'antica epopea animalesca, i lupi delle imperiali, regie, ducali e pontificie censure; del leone per certi generosi impulsi che facevano di tanto in tanto sobbalzare gli uditori, mentre, dopo le sciagure del '49, si preparava, quasi nel silenzio d'un forte raccoglimento, la riscossa d'Italia.
Un asino, una scimmia, un pappagallo, un serpente, una volpe, un leone, vi sembrano forse troppi? Ma riflettete che alla bestiale nomenclatura manca almeno un altro animale, cui mi sarebbe forza accennare quando non avessi a discorrere de' nostri padri e de' nonni che si sollazzavano ridendo delle farse gioconde, e mi trovassi invece a far da cronista de' pubblici più moderni che se la godono sghignazzando dinanzi a certi spettacoli pruriginosi.
I
Quanto meglio aver della volpe e del leone! E di qualità magnanime e astute c'era davvero bisogno, in quell'ultimo decennio in cui l'Austria e i governi restaurati oppressero la patria e cercarono quasi da per tutto di rinfiacchirne l'anima, o distoglierla dalle alte visioni sognate innanzi; le alte visioni dell'indipendenza e della libertà. La censura non adoprò mai tanto le forbici quanto allora.
Una Bianca Capello (sic) di Giovanni Sabbatini, nel 1844, era stata proibita negli stati di Sua Maestà imperiale apostolica, e poi in quelli del duca di Modena, e sequestrata a Modena nelle stampe, perchè… Ve lo dirà questo dialogo che par di commedia, ed è, a proposito di un dramma storico, un racconto di storia vera. Il Sabbatini si presenta al conte Riccini, Ministro di Buon governo, come lo chiamavano, del Rogantino di Modena, Francesco IV, a ottenere che sia tolto il sequestro; e ne è accolto così:
– Ah, lei dunque scrive di queste porcherie?
– Ma… come, Eccellenza? un dramma storico, approvato (per la stampa) dalla Censura di Milano?
– Storico, storico! Ce n'è tanta della storia senza andare a pescar fuori queste sozzure! E poi la storia!.. Chi è che fa la storia dei principi? I nemici dei principi, i ribelli! Figuriamoci che belle storie possono fare! —
E siccome l'autore insisteva sulle approvazioni già regolarmente ottenute, il conte concluse:
– Io intanto le dico ch'ella non è niente affatto in regola. Non so com'ella osi insistere. La è una porcheria! Mi pare che quando il Ministro di Buon governo le canta chiaro e tondo questo giudizio, basti perchè ella non abbia più da insistere d'essere in regola. —
Bisognò che il povero Sabbatini si desse per vinto. E voi forse crederete ch'egli fosse un riscaldato, un acceso, e che la sua Bianca Capello fosse Dio sa qual covo di viperine allusioni liberalesche? Nemmeno per sogno; tanto ch'egli stesso diventò poi, a Torino, un censore drammatico! Ma nel fatto della fuga della Cappello da Venezia col Bonaventuri, e de' suoi successivi amori a Firenze con Francesco II granduca, e della morte del Bonaventuri, e di quella di Francesco II e di lei, quale allora da tutti era stimato vero e certo storicamente, il conte Riccini vedeva solo una seduzione, un rapimento, un omicidio, commessi da un regnante; roba da Carbonari, roba da Mazziniani, ne fosse o no colpevole il Sabbatini.
– Caro signor Sabbatini, – concluse il conte, – la badi a un vecchio; qui non è più il Ministro che le parla, ma il suo buon amico Riccini, che le dà un consiglio. Tratti altri argomenti… Non si lasci guidare dalla moda e dai guastamestieri che col pretesto della letteratura pescano nel torbido… —
L'autore ebbe anche a ringraziare de' paterni consigli; e stava per andarsene, quando Sua Eccellenza lo richiamò, e porgendogli la penna intinta nell'inchiostro, e la copia a stampa del dramma incriminato, che si era fin allora tenuta lì innanzi sullo scrittoio, gli chiese un piacere: – Desidero, caro signor Sabbatini, di avere il suo autografo. Favorisca scriverci su, ch'ella mi fa dono del suo bel lavoro. —
E come l'altro lo guardava stupefatto e titubante:
– Sì, un bel lavoro letterario; il Ministro, governativamente parlando, lo deve biasimare, ma il Riccini deve felicitarsene coll'autore. Favorisca scrivere.
– Ubbidisco! – fu costretto a rispondere il Sabbatini, e scrisse sul libro: «A S. E. il signor Conte Gerolamo Riccini l'autore in segno di ossequiosa stima.» Non ci fu mai dedica men veritiera (e voi sapete che soltanto le epigrafi mortuarie son più bugiarde delle dediche). Racconta infatti il Sabbatini medesimo, che se n'andò crollando la testa ed esclamando tra sè: – E a gente tale si dà il governo dei popoli! – Tanto sentiva quella ossequiosa stima che aveva dovuto affermare e firmare in una dichiarazione autografa.
Nazione era parola da doversi sopprimere (diceva un censore) perchè non poteva riferirsi ad altro che ad una vera utopia, e offendeva i legittimi governi: la frase ogni libera voce era una pericolosa affermazione: quella pazienza, virtù grande degli Italiani sembrava che sonasse male, e che neppure essa, in un certo senso, fosse frase innocente. Che più? Paolo Ferrari racconta (e ormai siam dopo il 1848-49) che due personaggi di commedia, il principe Leopoldo Roccalba e il duca di Monteforte, divennero, per la censura di Modena, quegli marchese, e questi conte; perchè là erano proibiti nelle commedie i titoli di imperatore, re, principe, duca. Ma nella Toscana non piaceva in bocca di attori il nome di Leopoldo, che era quel del granduca, e la censura vi mutò Leopoldo in Arturo. Poi a Roma Arturo e il conte, nelle loro esclamazioni amichevoli, doverono schivare di nominare Dio: racconta la Ristori che là non si poteva dire curato nemmeno come participio del verbo curare: e Arturo fu per ciò costretto a dire al conte, non più – Mio Dio! sei diventato grasso! – Ma – Oh ciel! sei diventato grasso! – Per ultimo, siccome quella fiorente salute il conte la doveva alla buona aria di Napoli, e l'autore gli aveva fatto dire:
.. È naturale. Di Napoli son stato
A ber l'aure vulcaniche: sotto quel cielo ardente
L'alma di caldi sensi ringiovanir si sente..
la censura napoletana, insospettita di quel vulcaniche, di quell'ardente, di quel caldi, cancellò tutto, e volle invece:
Art. Oh ciel! Sei diventato
Ben grasso!
Conte È naturale! A Napoli son stato!
Come se a Napoli fosse necessario l'ingrassare!
Tutta la scena meriterebbe di essere così raffrontata; e da più altre correzioni simili potrei agevolmente trarre il riso vostro, o signori. Una almeno valga a confermare