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tutti convenivano o nel giardino o nel parlatoio, e là si trattenevano confettando e bevendo. A questa specie di lunch erano rosoli, marmellate, bocche di dama, pasticci, uccelletti arrosto, e le migliori frutta della stagione. La Castellana apprestava canzonieri scelti ed ogni sorta di lodevoli istrumenti, ed erano musiche e canti di madrigali fino all'ora della cena, che batteva tra le quattro e le cinque pomeridiane, ed era il maggior pasto della giornata.

      Delle caccie, delle cavalcate, e di altri fastosi e festosi sollazzi non parlo, perchè, come ho detto in principio, essi meno appartengono alla vita privata che alla pubblica, e perchè troppo già furono e maestrevolmente descritti, e d'altra parte richiederebbero troppo lungo discorso. Basti dire, che verso la fine del secolo troviamo le prime carrozze o carrette come le chiama il Bandello, ma erano poche, e non usavano che nelle città. Non avevano molle, ma portavano fregi ricchissimi e dorature, ed erano ricoperte di stoffe maravigliose. Le tiravano, a seconda dei casi, due, quattro, sei, otto cavalli, dei quali i più pregiati erano i Frisoni ed i Corsieri del Regno di Napoli.

      Molti e vari erano i giuochi da tavola, il trictrac, gli scacchi, i dadi, le carte, che servivano al Picchetto ed all'Homo, un giuoco portato di Spagna, ed i tarocchi, che non furono già come si volle inventati a svago dal re Carlo VI di Francia, ma vennero d'Oriente, a segno che un moderno dottissimo ma fantasioso negromante, l'Eliphas Levi, ravvisa nelle figure del pazzo, del carro, della giustizia, della morte, del mondo, delle stelle, e via dicendo, i segni cabalistici del libro di Salomone.

      Ma di tali giuochi, eredità del fosco Medio Evo, e delizia poi della grossa nobiltà dei secoli XVII e XVIII poco si diletta il nostro castellano. Egli preferisce il pallone, o la più domestica partita alle boccie in cortile o sul prato, cogli scudieri, col cappellano o col pedagogo. Già non è a credere che quelle menti non provassero quel continuo bisogno di attività e di applicazione, che agita le nostre. A furia di voler noi ammazzare il tempo, il tempo si vendica e ci ammazza: quelli lo lasciavano vivere, e si ristoravano delle cercate fatiche fisiche, abbandonandosi ad una specie di assopimento intellettuale. Agitate e pronte erano le menti nelle città e quelle dei fortissimi avventurieri che in quel secolo e nel seguente disfecero e crearono stati; ma se da essi procede e di essi parla la storia, non se ne deve indurre che gli animi in generale e gli ingegni dei signori somigliassero ai loro. Essi diedero la scalata alle signorie, poichè ne ebbero abbassato il prestigio, e la dappocaggine dei molti fu appunto argomento e giustificazione al prevalere dei pochi. Io per me credo, che in tale dappocaggine sia da cercare la ragione dei corrottissimi costumi femminili di quel tempo. Dalla decadenza romana a noi non s'incontra altro periodo di così largo rilassamento morale. Nè la religione poteva oramai fare argine allo sfrenarsi delle passioni. Al tempo del carnevale, era lecito ai religiosi di rallegrarsi, onde i frati tra loro recitavano commedie, e di qual fatta!, e suonavano e cantavano ballando, e alle monache non si disdiceva, quei giorni, vestirsi da uomini, colle berrette di velluto in testa, colle calze chiuse in gamba e colla spada al fianco.

      È davvero inconcepibile come in mezzo a tanto rinnovamento di studi e gentilezza di coltura le donne parlassero lo sboccato linguaggio che loro attribuiscono gli autori di commedie e i novellieri. Il Boccaccio è di gran lunga più riguardoso. Nelle Cene del Lasca, troviamo narrata da una donna, Amaranta, e con minutissimi particolari, la sconcia beffa fatta da un giovine ricco e nobile al suo pedagogo, ed essa è tale che nessuno artifizio di stile potrebbe farmi lecito di raccontare. E quella del Lasca a sentirlo era compagnia che sapeva di greco e di latino. Dicono: erano più sinceri di noi. Ma, astrazion fatta della morale, la verecondia è più una grazia che una virtù, ed è grazia sopratutto di gente colta. Nè Virgilio, nè Orazio, nè Catullo, nè Ovidio, nè lo stesso Giovenale, potevano apprendere a quelle dame ed a quei cavalieri somiglianti modi, onde è lecito sospettare che la vantata coltura fosse meno diffusa di quanto si crede, sicchè la gentilezza dei pochi nulla potesse contro la rozzezza dell'universale. Ed è certo poi che fra i meno colti, era il mio signor Castellano. Il quale, venuta la sera, si riduceva accanto al fuoco, in sonnacchioso silenzio, e le donne fatte alcune lente danze al dubbio chiarore delle fumose lucerne, prima novellavano alquanto fra di loro, indi infilavano in cerchio pater noster ed ave Marie, ed il cappellano dava loro lo spunto. Poi i valletti mescevano al signore il vino del sonno, e Madonna e Messere ognuno dalla sua ed in diversa e servile compagnia andavano a letto.

      E a me non rimane che augurare tranquille notti a quei morti, e gioconde giornate a questi vivi.

      LA VITA PRIVATA DEI FIORENTINI

DIGUIDO BIAGI

      Signore e Signori,

      Quale fosse la Firenze del Tre e del Quattrocento non è facile immaginare. A riguardarla dall'alto, da uno di quei colli che le fanno ridente corona e oggi son per lei mutati in altrettanti giardini, mentre forse allora nereggiavano d'alberi folti, di macchie e di scopeti, appariva come una bruna massa di torri merlate, cinta di mura e di baluardi. I pubblici edifizi che noi ammiriamo, le aeree cupole delle chiese, i campanili, nella cui voce è il palpito della vita d'un popolo, non ancora drizzavansi tutti nel fondo azzurro del cielo, come le antenne poderose d'una nave a più alberi. La terza cerchia, quella istessa che noi vedemmo abbattere, non era interamente compiuta, e l'Arno faceva il suo gorgo dove è ora la Piazza di Santa Croce, sboccando tra il Ponte a Rubaconte e il Castel d'Altafronte.

      Questo a' primi del Trecento, quando la piccola chiesa di Santa Reparata durava tuttavia e di Santa Maria del Fiore era ignoto il nome; e nel luogo dove sorse la Loggia d'Orsammichele tenevasi il mercato delle granaglie, e il campanile cominciato da Giotto e che da lui prese il nome, non era ancor stato condotto fino alle ultime finestre da Francesco Talenti: soltanto di sulla torre del Palazzo dei Priori, già la grande campana del Popolo, “la Vacca„, mugliava, facendo in alto echeggiare il dolce suono della libertà1.

      Le miniature del Biadajuolo, raffresco del Bigallo, appena ci danno un'idea della Firenze di quegli anni. Sono rappresentazioni fantastiche, dove la prospettiva è ancora ignota, e i tetti di color rosso vivo staccan di tono dalla selva delle torri che s'intrecciano e si accavallano. La tavola di Domenico di Michelino, che si vede in Duomo, vorrebbe mostrarvi la Firenze di Dante, la cui figura spicca nel mezzo del quadro; ma anche cotesta è una Firenze immaginaria, quanto il Purgatorio e l'Inferno che l'artefice le ha dipinti da presso. Una veduta della città, ma assai più recente, troviamo nella tavola che il Botticelli compose per Matteo Palmieri; una tavola, il cui soggetto tolto dal poema di lui la Città di vita, parve quasi ereticale; perchè il pittore, dipingendo la Vergine Assunta nella gloria del cielo, circondata dalle più sublimi visioni dell'idealità femminile, creò schiere di angelesse così formose, da far giustamente temere per i futuri amori degli angeli. Ma il paesaggio che serve di sfondo alla meravigliosa composizione, sfuma nella lontananza e nell'ombra d'un crepuscolo dorato, e al desiderio nostro non giova. Il quale potrà soltanto appagarsi più tardi, quando nelle Cronache di Norimberga scorgeremo una pianta della città quale era alla fine del Quattrocento.

      Ma a rappresentarci Firenze dal Trecento a' più gloriosi giorni del Rinascimento, quando i tesori raccolti in tutto il mondo da' suoi mercatanti versò nella creazione di monumenti immortali, proseguendo le tradizioni delle arti inaugurate per mano di Arnolfo, di Giotto e dell'Orgagna2; a rappresentarci lo scenario e la scena ch'io vorrei popolarvi con le figure d'artieri, di mercanti, di donne, di chierici, di trecche, di poeti, di novellatori, d'uomini d'arme, di forosette, di villani, di donzelli, di cavalieri, che mi s'affollano nella lanterna magica del cervello e che vorrei potervi dipingere in questo quadro della vita privata; a darvi un'idea viva se non compiuta, a darvi come una visione della storia del nostro popolo, che dalla rozzezza antica si condusse ai raffinamenti della Rinascenza, non basterebbe tutta l'opera d'un artista che fosse insieme storico, archeologo e poeta; non basterebbe – Dio ci liberi! – un corso intero di conferenze ideali, fatte con la parola e illustrate con il pennello. Ma finchè la donna, che ne è maestra, non abbia reso obbligatorio l'insegnamento per gli occhi dovremo contentarci di saggiare appena un così gustoso argomento, scegliendo nei vecchi libri di ricordanze,

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<p>1</p>

Del Lungo, Dino Compagni, II, 464.

<p>2</p>

Del Lungo, I, 6.