La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I. Various

Чтение книги онлайн.

Читать онлайн книгу La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I - Various страница 8

La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte I - Various

Скачать книгу

Il Fagiuoli, in quel suo interminabile profluvio di Capitoli slombati, ha qua e là, a sprazzi, dei quadretti di genere, dove la lingua fiorentinissima (e ben poco ci corre da quella d'oggi) colorisce graziosamente que' suoi fantoccini dal vero. E il Saccenti, dipingendo, pur dal vero, la vita di provincia degli ultimi tempi medicei; e il Pananti, la girovaga del Poeta di Teatro ne' primi decennii del secolo; e il Guadagnoli, la Toscanina patriarcale dell'ultimo Lorenese, e il tran tran di quel mondo che, secondo la comoda teoria del ministro Fossombroni, andava da sè; non vengon meno, nè il Saccenti nè il Pananti nè il Guadagnoli, – mentre il buon marchese Angiolo d'Elci seguitava tranquillamente a scrivere le sue Satire in classico stile – non vengon meno davvero al dizionario che sonava in bocca dei loro valdarnesi e mugellani, e dei fedeli abbonati d'anno in anno al prezioso lunario di Sesto Caio Baccelli. Diciamo altresì che certi dialoghetti del Sesto Caio (il Baccelli infreddato, per esempio, o il Baccelli zoppo, o dello stesso Guadagnoli il bozzetto villereccio di Gosto e Mea), certe scenette pur dialogate del Pananti (quelle con lo zio prete, i battibecchi dei commedianti fra loro e col poeta), se non raggiungono l'efficacia drammatica che il Giusti infonde in quei bozzetti mirabili delle Istruzioni a un emissario, della Spia dopo le riforme, dei dopopranzo di Taddeo e Veneranda, delle disperazioni della moglie di Maso nel Sortilegio, son tuttavia derivazioni dalla medesima fonte che il Giusti è poi parso aver egli disuggellata.

      Se non che il Giusti fu, e doveva essere, messo sopra a quelli altri, perchè nessuno di essi seppe o volle adoperare e temperare la lingua del popolo toscano alle alte cose alle quali lui la indirizzava; e nessun d'essi altresì aveva nell'anima ciò che il Giusti ci aveva, e che espresse nelle poesie che ho chiamate sentimentali; All'amica lontana, Affetti d'una madre, La fiducia in Dio, Il sospiro dell'anima, A Roberto nel 1841, A una giovinetta nel '43, e in quella stupenda, nona rima fra il '46 e il '47 a Gino Capponi, dov'egli, in cospetto del rinnovamento italiano e delle speranze magnanime, pronuncia il non sum dignus d'essere il censore del suo popolo risorto e ringiovanito. È il Giusti, che gareggiando con lo scalpello del Bartolini, scolpisce in un verso

      quasi obliando la corporea salma

      l'abbandono in Dio di chi non ha più altra speranza quaggiù. È del Giusti quella sublime espressione de' suoi ardimenti e sgomenti d'artista:

      Sdegnoso dell'error, d'error macchiato,

      or mi sento co' pochi alto levato,

      ora giù caddi e vaneggiai col volgo!

      E anch'io quell'ardua imagine dell'arte,

      che al genio è donna, e figlia è di natura,

      e in parte ha forma della madre, e in parte

      di più alto esemplar rende figura;

      come l'amante che non si diparte

      da quella che d'amor più l'assicura,

      vagheggio, inteso a migliorar me stesso,

      e d'innovarmi nel pudico amplesso

      la trepida speranza ancor mi dura.

      Sono del Giusti, o Signore, di questo poeta degli Scherzi, i versi più belli forse ne' quali abbia mai parlato la madre al figliuolo:

      Goder d'ogni mio bene

      d'ogni mia contentezza il ciel ti dia;

      io della vita nella dubbia via

      il peso porterò delle tue pene.

      Oh se per nuovo obietto

      un dì t'affanna giovenil desìo,

      ti risovvenga del materno affetto!

      nessun mai t'amerà dell'amor mio.

      E tu nel tuo dolor solo e pensoso

      ricercherai la madre, e in quelle braccia

      nasconderai la faccia;

      nel sen che mai non cangia avrai riposo.

      Di cotesta vena, che in quelli ed in altri suoi versi si effonde, talvolta, se volete, con un certo languore lamartiniano, ma altresì con una delicatezza d'imagini e soavità di concetti e nitidezza di frase, che li sollevano di gran tratto dalla comune maniera di certo romanticismo morboso; di cotesta, che è poi soprattutto vena d'affetto gentile; non c'è quasi poesia delle sue satiriche che non ve ne trapeli qualche stilla: in alcune poi, come nel Sant'Ambrogio, l'affetto è la nota dominante. Ben a dritto si sentiva egli lieto d'avere «di carità nell'onde temprato l'ardito ingegno, e tratto dallo sdegno il mesto riso.»

      E più che io ripenso a tuttociò, e come questo sia uno dei distintivi nobilissimi della sua poesia, meno mi capacito, anche solamente per questo, come «scrittore di piccola mente» potesse (dispiace ricordarlo) potesse parere Giuseppe Giusti a Niccolò Tommasèo. E si avverta che il Tommasèo stesso, scrivendo al Capponi, riconobbe «elaborate e maestrevoli» le poesie del Giusti, vide in quel lavorío i «belli e svelti panneggiamenti dell'arte»; contuttociò, gli parve che negli sdegni e sogghigni «del poeta, il cuore non parlasse». E pregò il Capponi ad ammonirnelo: ma il Capponi, come vedemmo, d'altro sì l'ammonì, ma non di questo. Nè so invero chi possa, pur reverente all'autorità del Tommasèo, consentire con lui in cotesti giudizi. Poteva il Tommasèo trovare difetti, magari più difetti che virtù, nelle poesie del Giusti; la stessa sorte ebbero, presso l'austero critico, il Foscolo e il Leopardi: potevano offenderlo certe, come egli disse, «celie profane», e metteva fra queste anche il combinarsi alcune bizzarrie metriche, che al Giusti avean fatto comodo, con l'innodia popolare della Chiesa. Ma «scrittori di piccola mente» e senza espansione di cuore, erano rimasti gli altri satirici toscani, dai quali il Giusti si staccò, come vedemmo, e si sollevò: in lui, anche sottoposto a giudizio, non che severo, acre, è debito riconoscere altezza di mente, finezza d'arte, potenza di sentimento; e fra i restitutori della italianità, nel secolo che doveva finalmente veder rivendicata l'indipendenza e l'unità d'Italia, segnare con sicura mano il suo nome. Non faremo che sottoscrivere una sentenza di Alessandro Manzoni.

      Il nome suo di poeta. Come prosatore, è minore d'assai; e francamente può dirsi che nelle sue prose, troppo spesso prevalga la maniera all'ispirazione. Le hanno esaltate oltre il dovere quei teorici della lingua parlata che dicevo poco fa. Stando ai loro criteri, si sarebbe dovuto scriver tutti a quel modo, e concluderne che solamente dopo sei secoli la lingua nostra avesse sciolto lo scilinguagnolo. Era un po' forte ad ammettersi; e quel vampo scolastico ha cominciato da un pezzo a dar giù. Io credo che il Giusti non avrebbe ambite lodi consimili, e che sopra teorie di tal fatta ci avrebbe architettato volentieri uno di que' suoi scherzi, coi quali ironeggiò sopra altre utopie non più fondate di questa. Del resto, la prosa sua la martellava, e come! Tormentava persino le lettere che scriveva agli amici; e il suo Epistolario, anche quando il Martini e il Biagi ce lo avranno dato genuino ed intero, seguiterà a farne testimonianza, anzi più espressa e sensibile. Quei difetti che abbiamo sentito il Capponi rilevargli, e che egli riconosceva, nella prosa stridono anche di più: perchè sono difetti (come il Capponi dice) di squisitezza; e la poesia, anche la familiare e satirica, consente alquanto più, che non la prosa, la ricerca del non comune, nel che appunto sta (come il vocabolo stesso significa) la squisitezza. Non è qui il caso nè il luogo: ma se volessimo esemplificare, sia dalla prosa sia anche dai versi, si farebbe capo le più volte ad abusi di locuzione figurata, con elementi non sempre coerenti fra sè e col soggetto, qualche altra volta a frasi e costrutti un po' sforzati; come pure non è lodevole certo scintillío di concetti continuato, che finisce con l'ingenerare stanchezza e monotonia. Tuttavia il Camerini, che fa anch'esso' quest'appunto della squisitezza, ha altresì queste parole: «Ma quella lettera a Drea Francioni dalle montagne pistoiesi, che finisce con la mirabile dipintura del ballo villereccio in casa del notaro, è bella come le sue più belle poesie.» E dice bene.

V

      Nè per ultimo possiamo, anzi non dobbiamo, dimenticare ch'egli morì a quarant'anni. Morì col presentimento che la sua poesia fosse finita con lui, ed augurando che fosse. «Sento» scriveva nel '47, ma però nell'atto

Скачать книгу