La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II. Various

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La vita Italiana nel Risorgimento (1849-1861), parte II - Various

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voleva capitanare l'esercito, e, a malincuore persuaso dalla ragione di Stato, cedette il comando al generale La Marmora.

      Il partito della guerra fu vittorioso in Parlamento, esclusivamente per il prestigio di Cavour.

      Pareva un'avventura. Lo scontroso patriottismo temeva dell'Austria, i meno diffidenti presagivano la ruina economica.

      È storia da non potersi riassumere in poche parole. Meriterebbe, essa sola, una conferenza. Occorrono più conferenze per illustrare la storia d'Italia dal '56 al '61 e questa storia d'Italia è storia di Cavour.

      Di certo, nella guerra di Crimea la parte del Piemonte fu rischiosa tanto, che anche il gran ministro ne temette. Oh! l'annunzio della Cernaia! E la vittoria che bacia il tricolore! E le divisioni di La Marmora emule dei primi soldati d'Europa, acclamate in cospetto del mondo!

      Fu l'anno sfolgorante e clamoroso. Dopo tanta tenebra profonda, tanto duro silenzio, l'anima del popolo si sollevò fiduciosa. La bandiera, nel suo nuovo prestigio, oltre il Ticino irradiò i bei colori che dicevano la speranza. Il popolo d'Italia scriveva sui muri: «Viva Verdi,» cioè: «Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia.»

      Sedizioso emblema! E il conte di Cavour si avviava a Parigi, per raccogliere, sul tavolo della diplomazia, l'alloro che l'esercito sardo aveva mietuto in Crimea.

      La storia della civiltà nostra dirà del Congresso di Parigi che esso fu la manifestazione dei sentimenti e delle illusioni di un secolo, il quale sentì l'ansia dei fini umani.

      Il secolo che doveva chiudersi con la conferenza per la pace, vi preludiò a mezzo il cammino col «non intervento, l'abolizione della corsa, il diritto dei popoli di manifestare liberamente i loro voti.»

      Napoleone III segnò in quel punto l'apoteosi del suo regno, e l'Europa la moderazione di lui ammirò.

      Cavour rinvenne l'alleato.

      – Che si può fare per l'Italia? – Gli chiese un giorno l'Imperatore. E Cavour, cogliendo al balzo le intenzioni e la proposta, gli esponeva il suo piano; si arrischia, e con temerario slancio butta sul tappeto verde del Congresso la questione italiana.

      Questo avvenne il giorno 8 aprile 1856.

      Fu la prima volta che in un congresso europeo l'Italia «nazione» apparì.

      Ben lo intese il gentile spirito dei patriotti toscani, quando al ministro piemontese ritornato in patria offerivano nel bronzo: «Colui che la difese a viso aperto.»

      Intanto i lombardi regalavano all'esercito sardo di Crimea la statua dell'alfiere in atto di difendere lo stendardo.

      Le rivendicazioni italiche erano una realtà. Cavour le aveva elevate al posto d'onore, mentre coglieva il segreto di Napoleone III.

      Il ritorno di Cavour da Parigi segna il principio di un'epica fase, e il linguaggio di lui ne risente.

      Questo ministro tecnico, che appariva sdegnoso di uscire dal terreno pratico, diventa un poeta.

      La sua eloquenza ha gli scatti e le pompe, l'ampiezza e la grandiosità: egli cita Byron e Manzoni, schiude innanzi al parlamento attonito un orizzonte sconfinato e corrusco di attività provocatrici. Le sue parole hanno la sonorità del metallo: rimbombano come fanfara di guerra.

      Orgoglioso, quando passa l'imponente rassegna degli scambi avvivati, delle industrie sollevate, delle leggi immaginate, delle Alpi tentate, delle strade aperte, della marina rinnovata, dei civili ordini assodati, coll'imponente e largo discorso dell'aprile 1857, da codesto orgoglio trae nobile argomento per additare le vie che si aprono, gli ardimenti che aspettano: le fortificazioni di Alessandria, il porto di Spezia, l'esercito, l'armata.

      E quando, l'anno di poi, l'attentato di Orsini getta lo scompiglio e incoraggia la reazione, egli, inesorabile accusatore, denuncia la complicità del misfatto nel mal governo dei principi, nelle perfidie austriache.

      Lo sgomento di tutti si infranse contro la sua virile fermezza. L'Europa stava spiando. Sarà Alberoni o Richelieu? Ma il 10 gennaio del '59 Napoleone III getta la sfida all'Austria; alcuni giorni dopo, Vittorio Emanuele non è insensibile al grido di dolore dell'Italia.

      Palestro, Montebello, Magenta, San Martino e Solferino! Giornate primaverili del nostro riscatto, corona di valore e di sangue a quegli accordi di Plombières che Cavour annodava, intanto che vanamente la diplomazia lo sorvegliava!

      La guerra del 1859, colla liberazione della Lombardia determinò la sollevazione della Toscana, dei Ducati e della Romagna; e, allorchè Napoleone III, preoccupato dal contegno della Prussia risolse di posar l'armi, stipulando i preliminari di Villafranca, mezza Italia aveva proclamato la indipendenza.

      L'insurrezione prodigiosa era stata sollecitata dall'iniziativa guerriera del Piemonte: Cavour l'aveva ispirata: egli sentiva la responsabilità formidabile.

      Il grande rivoluzionario era lui, che aveva bandito la guerra, scatenato le popolazioni, armato Garibaldi, che sosteneva di denaro e di consigli Farini nell'Emilia, d'Azeglio in Romagna, corrispondeva con Ricasoli in Toscana. Villafranca lo colpì come una defezione. Fu il dolore grande della sua vita, gli parve d'aver mentito ai popoli fidanti in lui. L'esaltazione tragica del suo animo salì all'irreverenza verso i sovrani; quel potente dubitò di sè: vide nell'opera sua una ruina.

      Il popolo d'Italia fu, in quei giorni più sereno e tenace di lui, ma lo intese. Disse: è un uomo di cuore costui, e veramente ci ama. Lo vendicò. D'altronde, Napoleone III che aveva sacrificato al dovere verso la Francia la promessa: «dall'Alpi all'Adriatico» si tenne fedele allo spirito del trattato di Parigi.

      Se Villafranca significava la pace coll'Austria, egli aveva dichiarato che non intendeva di frapporsi fra il popolo e le sue aspirazioni. Quando Gioacchino Pepoli fu spedito a Parigi per annunziare i propositi degli Italiani e già i governi provvisorii delle provincie centrali, irremovibili nell'indipendenza, meditavano l'unità coi plebisciti, l'Imperatore movendogli concitato incontro:

      – Sur quel air venez-vous? – chiese.

      – Sur l'air de Villafranca, Sire, rispose Pepoli prontamente. E di rimando:

      – Il n'y aura pas d'intervention, – dichiarò recisamente Napoleone.2

      Il non intervento condannò l'Austria alla immobilità, favorì la politica delle annessioni. L'opera di Cavour ne usciva intatta, e questi, che nell'impeto del patriottico sdegno, aveva abbandonato il governo, vi ritornò il 16 gennaio 1860.

      Era forse giunto il tempo che dovessero avverarsi tutte le profezie? Che anche la parola di Carlo Alberto trionfasse? Suonava per l'Italia l'ora di fare da sè?

      Ahimè! Diciotto mesi ancora, e poi il risorgente popolo è percosso dalla negra ala della morte.

      «Una congestione cerebrale,» scrive il venerando patriotta ungherese Luigi Kossuth «e la mente che oggi s'innalza co' suoi progetti fino al cielo, la mano che arditamente spinge la ruota della fortuna delle nazioni, domani è un corpo esanime che ridona alla terra ciò che di terrestre conteneva.»

      Ma in quei diciotto mesi quale maestosa onda di fatti!

      L'epopea dei volontari, l'ardita marcia a traverso l'Umbria e le Marche e Vittorio Emanuele che stringe la mano a Garibaldi sul Volturno, intanto che i plebisciti creano il regno d'Italia e il primo parlamento italiano acclama Cavour, che si mostra al braccio di Alessandro Manzoni!

      Questo

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<p>2</p>

Aneddoto raccontatomi dall'illustre presidente della Camera italiana: Giuseppe Biancheri.