La notte del Commendatore. Barrili Anton Giulio

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La notte del Commendatore - Barrili Anton Giulio

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del mal di denti quando è per andarsene, se non temessi di farmi mettere al bando dalle anime innamorate. Quella sera il teatro era aperto, anzi v'era spettacolo nuovo, e il gran concorso degli spettatori, collo scintillìo di tutte le stelle di prima e di seconda grandezza sul meridiano del Regio, oscurò la luce tapina di quel povero satellite che si chiamava Ariberti. La metafora vuol dire che la marchesa di San Ginesio non mostrò di avvedersi che egli fosse al mondo. Rinunzio a descriver la notte; animus meminisse horret, luctuque refugit.

      Venne la domenica. Ma le domeniche la marchesa non andava a teatro, salvo che in certi casi eccezionali. E quella sera il caso eccezionale mancava; nè l'Ariberti poteva gloriarsi di esserne lui uno. Gli bisognò dunque aspettare il lunedì sera. Ma ohimè! per quanto lo spettacolo non avesse più il pregio della novità e la sala non offrisse più le distrazioni dell'altra volta, madonna non pose mente a lui, nè si accorse de' suoi atti, o delle sue giaculatorie, rincalzate dal più operoso binocolo che uscisse mai dalle vetrine di Fries.

      Come fare a destar l'attenzione di quella superba? L'Ariberti avrebbe rotto volentieri un bracciuolo della poltrona, o invitato ad alta voce il contrabasso a scorciare di due palmi il braccio del suo molesto istrumento. Fece in cambio la ragazzata di applaudire una seconda ballerina di contrattempo, e senza che un cane gli tenesse bordone.

      Lo zittirono, com'era naturale, e tutti gli sguardi si volsero a lui, che si provò a star duro come un milorde inglese, quantunque si sentisse venir rosso fino alla radice dei capelli. Per altro, non andò guari che dovette allibire, avendo veduto con quella benedetta coda dell'occhio che la signora, seguendo il moto delle teste, aveva posto lo sguardo su lui e lo considerava coll'aria attonita di chi non capisce la ragione di un atto, o di una parola, che potrebbe anco esser l'atto, o la parola di un pazzo. Questo, nella sua foga giovanile, non aveva preveduto l'Ariberti; il quale giurò in cuor suo di non far più capo a così eroici spedienti.

      Finito il ballo, che gli parve assai lungo, uscì dal teatro, senza volerne saper altro. Voleva in quella vece andare al caffè, e bere del pònce. Nel vestibolo incontrò il conte Candioli, che scendeva allora dalla scala dei palchetti.

      –Arrêtez donc? Où diable courez-vous si vite?—gli gridò il contino alle spalle.

      Ariberti lo avrebbe mandato lui al diavolo; ma bisognava adattarsi alla necessità e far bocca da ridere.

      –Vo a prender aria;—rispose egli, dopo aver stretta la mano che il signor conte si degnava di porgergli.

      –Aspettate quella della prima donna, perbacco!—sclamò il Candioli, felice d'avere imbroccato un bisticcio.—Il terz'atto è il più bello dell'opera.

      –Ma io, veramente….

      –Sì, capisco—interruppe l'altro ridendo;—voi andate ad appostarvi sull'uscita del corpo di ballo. Avouez-le, heureux fripon; voi aspettate la piccola Diavolina.—

      Diavolina era il nome che portava nel ballo la danzatrice «di rango italiano» applaudita pur dianzi dall'Ariberti.

      –Io? Non la intendo;—diss'egli confuso.—Andavo a bere un pònce; ed anzi, se il signor conte vuole onorarmi…

      –Grazie, non posso. Questa sera son di servizio; ho da accompagnare a casa la baronessa Vergnani, che ha il marito in missione a Monaco e che offre un tè ai suoi cavalieri di quest'inverno. Vous voyez ça d'ici; Penelope che convita i Proci! Ma a proposito della piccola Diavolina, che diamine v'è saltato in mente, mio caro, di applaudirla a quel modo? Siete il suo valet de coeur?

      –Che! non la conosco neanche per prossimo.

      –Ah, meglio così; perchè, a dirvela qui entre nous deux, quella piccina non val proprio nulla. E poi c'è il suo re di danari, il cavaliere di Grugliasco, che ve la contenderebbe à outrance. Intanto, vedete, voi ve ne siete fatto un nemico mortale, poichè con quell'applauso avete esposta la sua bella a pigliarsi dei fischi.

      –Ah sì? Non me ne importa proprio un bel nulla.

      –Prenez garde! Il cavaliere passa per la prima lama di Torino.

      –Le ripeto, signor conte, che ciò non mi fa caldo nè freddo. Col mal umore che ho in corpo, la romperei anche con il gran lama del Tibet.

      –Pas mal, pas mal!—disse Candioli, con un cenno del capo che indicava il buongustaio.—Mais quelle mouche vous a piqué? Sareste in collera con Giunone?—

      Ariberti si rabbruscò a quel ricordo dei loro discorsi di caffè.

      –Le ho già detto, signor conte, che in tutta quella chiacchiera del Vigna non c'era una parola di vero.

      –Eh via! Non sofistichiamo. Se non c'era allora, ci può essere adesso. L'altra sera vi ho colto in flagranti di contemplazione.

      –Sì, non lo nego, l'ho guardata;—balbettò l'Ariberti, confuso;—ma come ne ho guardate tante altre, e non ci sono più tornato.

      –Davvero?

      –Glielo assicuro.

      –Tant mieux! Mi pare di avervelo già detto; è una donna troppa fredda. On ne lui connait pas la moindre aventure.

      Quella frase, buttata là a caso dal contino, suonò dolcemente all'orecchio d'Ariberti. Egli, per vero, non avrebbe saputo dirne il perchè, quando pure si fosse fermato a pensarci; ma provava una certa consolazione a sentire che quella superba donna, la quale rideva di lui, facesse piangere gli altri; che certamente erano in molti a sospirare per lei.

      E tuttavia, quella risata gli stava sempre sul cuore. Avrebbe voluto chiederne al conte, e saperne, come suol dirsi, l'intiero. Ma sì, per riuscire al suo fine, gli sarebbe bisognato scoprirsi troppo, confessare ch'era stato tutt'occhi per la marchesa, che si era avveduto dall'accenno a lui, e via via tutta una filatessa di cose da non dirsi al Candioli. E poi, anche disponendosi a ciò, il nostro provinciale non avrebbe saputo come prenderla.

      Così avvenne che rimanesse colla voglia e colla stizza, non bene affogate più tardi nel pònce, che fu ad un pelo di scottargli il palato. Di tornare in teatro, dopo quella memoranda impresa dei battimani, non sentiva più il desiderio. Anche quella vergogna gli stava sul cuore, e in quel momento poi, anche la marchesa gli era venuta in uggia, per quella sua attonita e altezzosa guardata.

      A farla breve, il nostro innamorato era in quella sera un tal misto di contradizioni, che io rinunzio a descriverlo, per non sembrarvi più matto di lui.

      In casa, dove finalmente si ridusse colle sue stravaganze, lo aspettava una novità. Sul suo tavolino da notte, appoggiata al piattello del candeliere perchè avesse a dargli subito nell'occhio, stava una lettera per lui. La soprascritta, di mano evidentemente femminile, oltre la calligrafia poco sicura dimostrava un'ortografia male in gambe. E non era qui tutto, poichè l'Ariberti nel rivoltare la lettera, vide che era sigillata colla metà d'una volgarissima ostia.

      –Chi diavolo ha potuto scrivermi?—domandò mentalmente a sè stesso.

      Al nostro eroe era passato per la fantasia un nembo di lettere profumate in carta di seta, collo stemma impresso a colori sulla ripiegatura, e con una mano di scritto affilettata all'inglese; sogni tutti e desiderii della sua giovinezza precoce. Ed ecco, gli capitava in quella vece alle mani una letteraccia in carta comune, mal ripiegata, peggio sigillata, e probabilmente piena di scarabocchi, sul fare di quelli che la soprascritta portava ad insegna.

      Basta, non è tutto oro nel mondo, e Ariberti doveva contentarsi per quella volta agli spiccioli di rame. Chi sa? poteva anche essere oro misto.

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