La notte del Commendatore. Barrili Anton Giulio
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Читать онлайн книгу La notte del Commendatore - Barrili Anton Giulio страница 8
–Già tu l'hai sempre coi latini. Io ci ho invece uno studio sui Nibelunghi.
–Che cosa sono? Roba da mangiare?
–Tira via, sciocco, e impara l'arte nuova; ne abbiamo piene le tasche dei classici.
–Amici,—interruppe il Ferrero,—noi ci stiamo bisticciando per la pelle dell'orso. Prima di tutto, vediamo se il giornale uscirà. Avremo noi il permesso del governo?
–Perchè no?—disse l'Ariberti, mandando una timida occhiata al ricapito del figurino di Parigi;—se il signor conte si degna di spendere una parolina per noi con Sua Eccellenza, voglio sperare….—
Il signor conte, che andava farfalleggiando continuamente dal banco di Malvina al tavolino degli amici, gonfiò a quelle parole lusinghiere.
–Il signor conte—aggiunse il Ferrero,—potrebbe anche essere uno dei primi scrittori del giornale, ed anzi il più gradito alla miglior classe di lettori, che è senza dubbio quella delle lettrici.
–Io?—dimandò il contino, che non ci arrivava da sè.—E che cosa potrei scrivere io, palsambleu?
–Eh, per esempio, i ricordi del suo viaggio a Parigi. Mi sembra che l'argomento sia ghiotto; che ne dite voi altri? Ella ha certamente molto veduto e molto osservato;—soggiunse il Ferrero, dandogli accortamente la soia;—ricevimenti di corte, passatempi di strada, segreti di boudoir, occhiate tra le quinte del palcoscenico, chiacchiere di foyer, insomma, tutto ciò che forma la vita di quella capitale affascinante; ecco quello che potrebbe descrivere. Non c'è che lei, per farlo; e sarebbe la man di Dio pel nuovo giornale.—
Questa volta il pavone fece a dirittura la ruota.
–Sicuramente—rispose egli, mettendosi sul grave.—E sebbene io non abbia troppa domestichezza colla lingua…. Del resto, sentano, signori miei; bisogna confessarlo una volta; la lingua italiana è povera, assai povera.
–Che diavolo dice?—esclamò il classico Vigna. Con un vocabolario di —ottantaseimila parole!
–Sta zitto!—interruppe il Ferrero, che voleva ingrazionirsi col figlio del ministro.—Il signor Conte ha ragione, e tu gli scambi la tesi. Sicuro, c'è molta roba nel vocabolario; ma a che serve, se è lingua morta e ciarpame?
–Infatti, è proprio questo che volevo dir io;—ripigliò il signor Conte, inchinandosi.—Ed ecco un esempio che fa al caso nostro. Come tradurrebbero lor signori la parola francese regret?—
La domanda era vecchia, e certo il signor Conte l'aveva raccattata in qualche conversazione di gente sconclusionata, che non sa la sua lingua, e, quel che è peggio, non vuol confessarlo. Anche Ariberti, come il classico Vigna, si sentiva a rispondergli che c'erano in italiano almeno dieci vocaboli per esprimere tutte le gradazioni d'un sentimento, anzi meglio, i vari sentimenti che i francesi sono costretti ad esprimere con quel vocabolo solo; la qual cosa, a dir vero, non fa testimonianza di molta ricchezza nel tesoro filologico dei nostri vicini d'oltralpe. Voleva anco soggiungere, allargando la questione, che ogni lingua ha i suoi propri modi e partiti per dire il fatto suo, e che il non poter voltare col medesimo giro una frase forastiera non prova nulla a suo danno. Infine, voleva dargli pulitamente di sciocco; voleva…. Ma a qual pro? Anch'egli aveva capito che non bisognava urtare con quella ignoranza pomposa; e fu egli il primo a rispondere, con una mimica espressiva, al signor conte, che egli aveva ragione, e che quel maledetto regret era proprio intraducibile.
Il conte Candioli ricompensò l'Ariberti con un gesto di protezione.
–Se scrivessimo il giornale in francese,—soggiunse egli poscia, piantandosi la fida lente nella incavatura dell'occhio destro, come faceva sempre quando volea darsi aria d'uomo d'assai,—sarebbe forse meglio, e il giornale sarebbe più répandu.
–È verissimo;—rispose il Ferrero:—ma non tutti abbiamo famigliare la lingua francese come il conte Candioli. Via, facciamo un tanto per uno, scriviamo il giornale in due lingue.
–Soit,—disse il contino;—chacun son goût.
–Pensiamo dunque al nome:—disse Balestra;—io propongo che si chiami L'Aurora.
–Io La Minerva;—gridò il classico Vigna.
–Il primo non dice niente, e l'altro vuol dir troppo; rispose il —Ferrero.—Cerchiamo ancora.
–Cerchiamo;—ripetè l'Ariberti.—Io vorrei un titolo che dicesse anche il luogo donde il giornale uscirà.
–Il Po;—soggiunse prontamente Balestra.
–Via;—saltò su il Vigna, dandogli sulla voce; lo si chiami almeno —L'Eridano.
–Sia pure L'Eridano e se ti piace, anche Il Bodinco, per andar cogli antichi.
–Pardon!—interruppe il contino, stendendo la mano nel crocchio, come per annunziare l'arrivo d'una idea.—È già forse stabilito che il titolo debba essere in italiano?
–Ma…..—disse il Vigna sconcertato.
–Ma…—ripeterono gli altri, non sapendo che pesci pigliare.
–Il signor conte ha ragione;—aggiunse tosto il Ferrero, che era l'uomo dei ripieghi,—ci vuole un titolo che corrisponda alla cosa. Noi che facciamo? Un giornale in italiano e in francese. Ci vuol dunque un titolo bilingue.
–Sicuro, bilingue! Ah, ce diable de Ferrero! Il n'y a que lui pour avoir de ces idées là.
–Grazie, signor conte! Ed ora che ci penso, il titolo è bell'è trovato; un titolo che salva tutto; La Dora.
–Oh diavolo! la Dora!—esclamò il Vigna, che non si raccapezzava.—E non è forse un nome italiano?
–Bravo! E chi ti dice di no? E Dora non può essere femminile in francese, com'è in italiano?
–C'est juste; puisque c'est une rivière…—aggiunse il conte Candioli con aria di trionfatore romano.
–Ah bene! benissimo!—gridarono tutti in coro. Une rivière! Diciamo —dunque: La Dora.
–E sarà settimanale?
–No, c'è troppo da fare, io sto per un fascicolo al mese.
–Sentite, amici miei; diamola nel mezzo e usciamo fuori per quindicine. Noi si ha tempo a scrivere e gli altri hanno tempo a leggere.—
Qui, gettate le fondamenta, cominciarono le osservazioni minute, intorno ai necessari congegni di ordinamento interno; alle spese, ai carichi di amministrazione e a tutti gli altri amminicoli, sui quali il signor Conte era invitato a dire il suo nobile e riverito parere.
Quanto alle materie, non c'era fortunatamente da stillarsi il cervello. Gli scrittori abbondavano, e tra cattivo e mediocre ognuno ci aveva un sacco e sette sporte da mettere in comune. Ariberti incominciava co' suoi versi d'amore, inspirati dalla figlia del droghiere di Dogliani, ma che, con qualche ritoccatina, potevano tirarsi dal biondo al bruno, passare per roba di più prossima e più aristocratica derivazione. Ferrero dava fuori il suo viaggio in Toscana, col titolo pomposo: Tre mesi sull'Arno. Veramente, non c'era stato che un mese, e nemmeno nella incomoda postura del colosso di Rodi; ma già lo ha detto Orazio: Pictoribus atque poëtis, quidlibet audendi semper fuit