Galatea. Barrili Anton Giulio
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Ho detto che le imbroccava tutte, e non mi disdico, sebbene due le uscissero dalle righe. Ma quelle due le aveva gettate a bella posta fuori del giuoco. Scambio di rimandarle alla parte avversaria, con un abile giro di racchetta le scagliava verso di me, una facendone ruzzolare fino a' miei piedi, e l'altra, poi, accoccandomela senza misericordia sul mio cappello di sparto; senza averne l'aria, si capisce, mentre io stavo discorrendo colla contessa Quarneri, che si era stancata alle prime partite, e uscita di giuoco e surrogata dalla maggiore delle Berti, era venuta a sedersi presso di me, rimasto a caso in disparte. Non più Ebe, no davvero, Galatea da capo; e non già quella di Orazio, che si metteva in viaggio; non già quella di Teocrito, che tradiva Polifemo per Aci; la Virgiliana, dico, della quale cantò Darneta nella terza delle Bucoliche:
Malo me Galateo, petti, lasciva puèlla, Et fugit ad salices et se cupit ante videri.
Ad un certo punto, approfittando della distrazione di uno dei ragazzi, viene a raccogliere una palla a poca distanza da me. Avrei dovuto alzarmi io a raccoglierla; ma mi tratteneva nel dialogo una battuta un po' lunga della contessa Quarneri. Passando leggera davanti a noi, la signorina Wilson mi gitta poche parole, che rompono a mezzo il discorsetto della mia interlocutrice.
–Non è vero, signor Rinaldo, che è bello il lawn-tennis?—
Le rispondo che è bellissimo; ma ella è già trascorsa veloce, sorridente, graziosa; si curva sulla vita, raccoglie la palla, e fugge al suo posto di combattimento. Gran diavola di ninfa! Non offre all'occhio che belle linee flessuose, elegantissime nella loro mobilità: ogni atto, in lei, ogni gesto, ogni movenza, è un prodigio di grazia. Ci ha parte sicuramente il lawn-tennis, con tanta varietà di movimenti che richiede; ed è forse per questo che le signorine giuocano volentieri al lawn-tennis.
Ma ogni bel giuoco dura poco, anche quando pare una gran novità, a mille diciannove metri sul livello del mare. La signora Wilson e la signora Berti, madri, ed arbitro del campo, hanno guardato l'orologio e fatto un gesto a Terenzio Spazzòli. La signora Berti è anche un po' di cattivo umore. Perchè? Immagino che le dia noia la luminosa bionda che ha tre serventi, mentre le sue figliuole non ne hanno nessuno. Eppure son tanto carine! Ma che mania, scusi, è la sua, di condurle da per tutto in mostra, a far numero tra le donne di sboccio, tra quelle, io vo' dire, che stanno sulle mode e sugli spassi, che son vaghe di conversazioni, di teatri e di feste da ballo? Giuro, anzi scommetto, che a far così non troveranno marito. Uno che abbia la vocazione di prender moglie, o cerca una dote vistosa, o si appiglia a qualità più modeste. Le sue care figliuole hanno tutte le mode ultimissime, scorrazzano su tutti i marciapiedi, si fanno vedere a tutte le prime rappresentazioni, a tutte le feste, a tutti i ricevimenti solenni. È una cattiva strada, quella che prende la signora Berti degnissima. E ci ha, dopo tutto, un cuor d'eroina: per il suo nobile errore si adatta ad ogni fatica più improba; corre di qua e di là senza posa, naviga e pesca in ogni acqua, povero vascello a tre ponti, e si scusa dicendo che fa tutto ciò per ragion di salute.
Se almeno uno dei tre satelliti lasciasse un po' la Quarneri! Ma no, niente; son fermi al posto, e si direbbe quasi che si facciano la guardia l'un l'altro. Dove uno va, si cacciano gli altri due. Garbati, silenziosi, sospettosi, non sanno neanche marciare in fila; vanno sempre di fronte. Quando uno ha l'ombrellino della signora da tenere, l'altro porta il ventaglio, e il terzo i guanti. La contessa li tratta tutti egualmente, con languida benevolenza imperatoria. Con altrettanta benevolenza ha chiesto dei versi a me, pel suo albo. "Gli amici miei ci son tutti," mi ha detto, "e non altri che amici." Dio, quanti ce ne debbono essere! È molto bella, e d'una bellezza che attrae: carnagione di madreperla, con toni rosei; capelli biondi, ma d'un biondo strano che tira all'amaranto, con vene e riflessi d'oro di zecchino; occhi un po' grigi, ma fosforescenti; bellezza luminosa, ho già detto, e non c'è altro da aggiungere.
Gli arnesi del giuoco sono raccolti nella cesta; raccolta e caricata la batteria degli impicci, delle provvigioni avanzate, delle stoviglie, e via discorrendo. Si dà un'occhiata stracca alla gran scena del mare, che ci aveva tanto commossi all'arrivo, e si riprende il sentiero della valle. Laggiù, a due terzi di strada, dove si era notato un luogo assai pittoresco in vicinanza del mulino, si farà una lunga fermata ed anche una merenda. Così decreta Terenzio Spazzòli. Le signore protestano che non toccheranno più cibo; ma egli, sicuro del fatto suo, sentenzia che giunte laggiù sentiranno ancora gli stimoli dell'appetito, e non vorranno poi lasciar soli a macinare i compagni del sesso forte, che sentiranno gli strazii della fame. Si ride, si salta, si canta e si scende.
La signorina Wilson è venuta al mio fianco, a caso, e per non rimanerci a lungo.
–Di che cosa le parlava con tanto ardore la signora Quarneri?—mi chiede.
–Di poeti, in genere;—rispondo.—Ma più del Leopardi. Ne va matta.
–Sì?–esclama lei, torcendo le labbra.—Oh cara!—
Qui fa una pausa, e poi parla d'altro; finalmente, disponendosi a lasciarmi per andar colla Berti, mi scaglia la frecciata del Parto fuggente.
–Ho osservato che Lei diventerà un discreto giuocatore di lawn-tennis.
–Io? e perchè?
–Perchè si adatta così bene a fare il quarto—
Assassina! Vorrei chiederle conto della sua frase, ritenendola oscura: ma lei è già lontana, e chiama Buci ad alta voce. Buci arriva, ma a piccole giornate; non salta più, trova appena il tempo di ridere, avendo fatta una scorpacciata da vicario foraneo.
Lascio la signorina Kitty al suo Buci. Ed ella non sa che potrei farla ridere con più gusto e più rumorosamente di Buci. Basterebbe che io le riferissi un brano di discorso della signora Quarneri.
–Quanto l'amo, quel caro Leopardi! E dica, è sempre laggiù confinato nella sua Recanati?—
VII
Rinaldo a Filippo
25 luglio 18…
Che idee ti passano per la testa? Che opinione ti sei formata di me? che io sia diventato un mulino a vento, da muover le pale ad ogni soffio? un arcolaio, che quanto è più vecchio e più gira, ai capricci delle donne gentili che si trastullano a dipanare? un guancialino da aghi e da spilli, per uso delle ragazze che si addestrano a pungere? e peggio, poi, un tappeto, una pedana, un posapiedi da contesse?
Tu vuoi aver l'aria di saper molto addentro dei fatti di Corsenna; e non sai niente, lasciatelo dire, niente di niente. Se sai, perchè ti lagni che non ti scrivo io? Ma infine, è vero, non ti ho più scritto da dieci giorni, magari da quindici. Ho la malattia degli scrittori, mio caro; quella specie d'intermittenza, ch'essi hanno comune con certe fontane. Sono periodi d'inerzia. Quando non riesco ad azzeccare un'idea, ed ho nondimeno il prurito nelle mani, scrivo lettere; è giusto allora che io scriva al miglior degli amici. Ma poi le idee mi ritornano, o mi pare; e allora son tutto al lavoro. Guai se non fosse così.
Quanto al "giornale di Corsenna", checchè tu ne pensi, non si poteva tirare avanti; era vuoto di cose, ed io non potevo tesserlo tutto di ciance. Altro che articoli di fondo, come li vuoi chiamar tu, sognando ad occhi aperti. Vedo qualche volta, saluto, e da lontano, se posso: quando non posso da lontano, adempio gli obblighi di società, tirandomi fuori alla svelta, e mi rifaccio al poema. Sicuro, al poema, mio tormento e mia gloria. Rivedo più chiara l'idea madre; anzi, ti dirò che mi è cresciuta fra mani. Don Giovanni è l'uomo, nella sua bramosia insaziata d'ideale, dell'ideale che cerca da per tutto, che crede ad ogni istante di afferrare,