L'Antica Stirpe. Michele Amabilino

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L'Antica Stirpe - Michele  Amabilino

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con riferimento al cibo «ma per voi biocompatibile.» Cambiando discorso, come per rassicurarci aggiunsero: «Siamo vicini alla meta ormai...»

      Vicino alla meta, ripetei mentalmente ma non riuscivo a capire il significato che loro davano a quelle parole. Un pianeta? Ma quale? Le poche nozioni di astronomia imparate a scuola mi informavano di pianeti a noi vicini inospitali. Il nostro Sistema Solare contava soltanto un solo luogo adatto alla vita, la Terra, tutto il resto era una somma di mondi infuocati, sterili, ghiacciati e gassosi, luoghi senza vita. E poi c’era da considerare la grande distanza tra un mondo e un altro. Un abisso di tempo, un viaggio senza fine. Impossibile esplorare tutto il Sistema Solare. La meta, ma quale meta, mi ripetevo e sentivo in me un vortice di pensieri che mi stordivano.

      Con nostra grande sorpresa gli alieni schiacciarono dei bottoni e le pareti interne dell’astronave si ritirarono rivelando un panorama che toglieva il respiro. Dai vetri, fuori era tutto nero come l’inchiostro, un abisso di vuoto siderale che dava le vertigini. Era evidente che i piloti manovrassero con sistemi strumentali e non a vista. L’astronave rallentò fino a fermarsi. Dai finestrini apparvero le sagome gigantesche di altre astronavi dalla forma aerodinamica, tutte illuminate. Erano tanto grandi da lasciare imbambolati, come e più grandi delle città terrestri. Erano due e, nelle loro vicinanze, sfrecciavano mezzi spaziali di ridotte dimensioni simili nella forma a quella in cui eravamo a bordo che entravano tutti nella pancia di quelle mostruosità dello spazio. Le più grandi ipotizzai essere come le astronavi madre in grado di viaggiare negli spazi siderali e quelle più piccole, navette intente in operazioni che ricordavano quelle effettuate dalle scialuppe di un grosso mezzo navale. Pensai questo associandolo ai mezzi navali in uso nella guerra mondiale che ci eravamo lasciati sulla Terra.

      «Quelle sono le astronavi madri?» balbettai rivolgendomi ai piloti e indicandole con il dito.

      Uno di essi che sembrava il capo e che sempre mi aveva rivolto la parola, confermò con la sua voce metallica e priva di emozioni: «Sono le nostre Ammiraglie,»

      La nostra navetta si introdusse lentamente nel ventre gigantesco dell’Ammiraglia e quando i piloti spensero i motori notai che c’erano altre navette, da poco atterrate, come la nostra e poi un intero esercito di alieni armati di bastoni metallici; alcuni di essi volavano su minuscoli aeromobili muniti di pedana e di un manubrio simile a quello di un monopattino. Non erano veloci ma agili nei loro spostamenti. Erano tutti lì per darci il benvenuto?

      «Siamo prigionieri, forse schiavi o carne da macello» bisbigliai ai miei amici che, a guardarli, sembravano più bianchi delle bianche lenzuola. Fu grande la nostra sorpresa quando scoprimmo che c’erano altri prigionieri come noi, terrestri, i quali erano spintonati rudemente da quei mostri con l’armatura.

      «Non siamo soli» fu il nostro laconico commento e poi la nostra attenzione cadde su quei disgraziati. Nella quantità, variamente vestita forse ad indicare etnie diverse, notammo anche delle donne, insolitamente giovani come la maggioranza degli uomini. Qua e là notammo qualche soggetto dalla capigliatura brizzolata e con qualche ruga e questo ci fece pensare che gli alieni catturassero le loro prede con una strategia mista, a volte mirata, a volte casuale.

      «Che ne sarà di noi?» piagnucolò Gilda spintonata e invitata a raggiungere un folto gruppo di terrestri, forse verso qualche prigione.

      «Dobbiamo cercare di stare insieme noi tre, di non disperderci, questo per rendere meno penoso il nostro destino» disse con voce bassa Mario cercando un accordo comune.

      Ci trovammo tutti riuniti in una grande stanza poco illuminata da pannelli di pietra fosforescente; c’erano dei buchi sul pavimento, forse per l’evacuazione degli escrementi, cuccette nere imbottite, in bell’ordine, e pannelli a muro con sportelli, luci e pulsanti colorati. La loro funzione più tardi ci fu nota. Notammo che all’ingresso non c’erano cancelli ma piccole luci pulsanti poste sul pavimento all’entrata e questo ci fu presto spiegato. Erano degli smaterializzatori di materia organica. In parole povere: la fuga non era consentita, chi osava pagava con la propria vita l’audacia o l’incoscienza del suo gesto.

      Eravamo belli e fritti.

      Ci scambiammo informazioni con non poche difficoltà. Infatti tutti quanti, meno una percentuale esigua dei presenti, era di etnia diversa. Diversa etnia significava diverso linguaggio. Una moderna torre di Babele siderale. Così il dialogo diventava un vero problema.

      Sempre più ci assillava l’interrogativo del perché di questo rapimento di massa, sentivamo in ogni istante l’angoscia per la perduta libertà, dell’abisso che ormai ci separava dalla nostra cara, vecchia Terra, per i perduti affetti e interessi, per gli stili di vita individuali. Era come morire o vivere in un limbo dove non c’era più confine tra il sentirsi vivi o sentirsi spettri vaganti in una esistenza sfumata, eterea, senza più passato e senza più futuro. Una condizione questa che ci lasciava stremati, ci svuotava da ogni interesse alla vita. Gli occhi lucidi, lo sguardo spento, ci guardavamo cercando in qualcuno qualche traccia di vitalità. Dopo aver mangiato ci prese una strana sonnolenza. Non riuscivamo a tenere gli occhi aperti e presto ci rendemmo conto di avere assunto un narcotico. Ci addormentammo profondamente. Difficile dire del tempo trascorso, forse ore, chissà quante. Quando ci svegliammo gli alieni erano tra di noi con i loro bastoni metallici. Più erano vicini più sentivamo un senso di repulsione, come specie diversa, incompatibile. Ci invitarono ad alzarci con fare brusco poi - e per noi fu una sorpresa - ci informarono sul viaggio. Dunque avevano un po’ di considerazione, non ci vedevano come animali. Un alieno, forse un capo - e lo riconobbi tra tanti per il distintivo particolare sull’armatura -, lo stesso che ci aveva rapiti, ci parlò traducendo in molte lingue terrestri. Il che voleva dire che ci conoscevano da tempo e che avevano avuto modo di studiare i nostri linguaggi.

      «Terrestri, vi avvertiamo dello scopo di questo viaggio, la destinazione e il luogo dove ci troviamo. Stiamo per raggiungere i confini del vostro Sistema Solare. Più in là, incontreremo una singolarità dello spazio che ci inietterà in un corridoio spaziale: un buco nero. Lo attraverseremo per uscire dall’altra parte dell’Universo, a noi noto, e questo per abbreviare i tempi del viaggio. Le nostre astronavi viaggiano ad una velocità inimmaginabile per voi, quindi quando arriveremo a destinazione saranno passati solo pochi giorni mentre sul vostro pianeta molto di più. La destinazione: Un pianeta ancora giovane, abitabile, pieno di opportunità e da noi chiamato Terra 2. Così abbiamo deciso. Dunque, la vostra condizione sarà quella di coloni, non quella di schiavi. Questi ultimi li adoperiamo nelle miniere o in altre estrazioni e sono prigionieri nelle guerre galattiche. Li usiamo come manodopera per il nostro pianeta madre che è Orbiter dell’impero dell’Antica Stirpe, nostra culla della vita e scopo per l’inseminazione pilotata delle specie.»

      Me ne stavo sempre vicino ai miei compagni di sventura, Mario e Gilda e non mi ero perso neppure una parola di quel mostro. A sentirlo, imprecai soffocando la mia voce, per non farmi sentire dagli altri.

      Quell’essere aveva usato la parola “inseminazione” a me familiare, il che voleva dire che considerava tutti gli esseri viventi alla pari delle piante, ovvero che non aveva scrupoli a interferire con la vita dei viventi... Questo mi fece pensare di avere a che fare con un essere privo di coscienza, almeno come la intendevo io e la sua appartenenza ad una civiltà galattica molto più antica della nostra e tecnologicamente più progredita. Cominciai a pensare sul significato della parola COSCIENZA e mi convinsi che essa è artificiosa. Quello che a noi terrestri può sembrare ripugnante, a un’altra specie può sembrare normalità. Poi mi chiesi quali le possibilità delle variabilità della vita sul pianeta degli Orbiteriani e intendevo per vita anche quella vegetale ma mi convinsi che non avrei mai avuto familiarità con il pianeta di origine di quella specie, ma con quello in cui ero destinato con i miei compagni e dove avrei vissuto tutta la vita. Cercai di immaginarli a passeggio in una cittadina terrestre. Quali le possibili reazioni della gente e dei Governi? Mi chiesi ancora se avessero il culto dei morti e degli dei a cui affidare il loro spirito, tutte domande senza risposta perché

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