L'Ombra Del Campanile. Stefano Vignaroli
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CAPITOLO 1
La magia non è stregoneria
(Paracelso)
Bernardino sapeva bene di vivere in tempi in cui era davvero pericoloso dare alla stampa un testo senza aver ottenuto l’imprimatur ecclesiastico. Se oltretutto il testo era blasfemo e offendeva la Chiesa ufficiale, propinando dottrine a lei contrarie, si rischiava il rogo, non solo dei libri stampati, ma anche dell’autore e dell’editore. La sua stamperia, in Via delle Botteghe, andava bene. Il secolo decimo sesto era da poco iniziato e Bernardino si era fatto conoscere come tipografo in tutta Italia, per aver sostituito i caratteri mobili di stampa in legno con quelli in piombo, molto più resistenti e duraturi. Con lo stesso “clichet” riusciva a stampare un migliaio di copie, contro le trecento che i suoi predecessori della scuola tedesca stampavano con gli “stereotipi” in legno, anche se manipolare quel metallo gli stava creando non pochi problemi di salute. Aveva rilevato, oltre un trentennio prima, la stamperia di Federico Conti, un Veronese che aveva fatto la sua fortuna a Jesi, creando la prima edizione a stampa tutta italiana della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri. Il Conti aveva in breve raggiunto l’apice della fortuna, così come altrettanto in breve era caduto in disgrazia. Bernardino ne aveva approfittato e aveva acquistato la stupenda stamperia per quattro soldi. Con la calma e la pazienza proprie di coloro che provenivano dal contado Jesino – Bernardino era originario di Staffolo – aveva fatto crescere la sua attività fino ai massimi livelli, senza mettersi mai in contrasto con le autorità, sempre onorato e riverito. Fino allora, l’opera più importante alla quale si era dedicato, era stata una “Storia di Jesi, dalle origini alla nascita di Federico II”, basata su quanto tramandato per tradizione orale e sui documenti storici, antichi manoscritti, contratti, mappe e quant’altro era conservato nei palazzi delle nobili famiglie jesine, Franciolini, Santoni e Ghislieri. Alla stesura dell’opera avevano lavorato Pietro Grizio e lui stesso; anche se non era un vero e proprio scrittore, a forza di preparare bozze da stampare, aveva infatti acquisito buonissima familiarità con la lingua italiana. Un’opera che ancora non aveva portato a termine e che sarebbe stata stampata dai suoi successori solo nel 1578, dopo un notevole lavoro di rivisitazione e rifinitura. Un’opera che sarebbe stata per lungo tempo la più importante fonte storica sulla città di Jesi, e da cui avrebbero preso spunto, dopo due secoli circa e oltre, il Baldassini per il suo “Memorie historiche dell’antichissima e regia città di Jesi” e l’Annibaldi per la sua “Guida di Jesi”, comparsa addirittura nei primi anni del XX secolo. Una grande e importante opera, ancora tutta in cantiere, lasciata in sospeso per pubblicare un libercolo commissionatogli da una ragazzina poco più che ventenne. Cosa passava per la testa di Bernardino per dare alle stampe un opuscolo dedicato al culto pagano della Dea Madre e alle cure con le erbe officinali? L’Inquisitore capo della città, il Cardinale Artemio Baldeschi, avrebbe potuto fare irruzione nella sua bottega da un momento all’altro, magari istigato da qualche altro tipografo geloso dei suoi successi. E tutto questo per fare un favore proprio alla nipote del Cardinale, Lucia Baldeschi. A cinquant’anni aveva forse perso la testa per quella donzella?
No, improbabile, si diceva tra sé e sé lo stampatore. Non potrei di sicuro farcela a sostenere una notte d’amore con una giovane puledra, anche se… Anche se la sola idea di poterle sfiorare le mani con le sue un po’ lo eccitava, ma ricacciava quelle pulsioni negli angoli più reconditi della sua mente.
In cambio della stampa del manuale, la giovane “strega” aveva promesso a Bernardino una cura efficace per la sciatalgia che lo affliggeva ormai da anni e un unguento che l’avrebbe protetto dall’assorbire la polvere di piombo attraverso la pelle screpolata delle mani.
«La colpa della tua anemia e dei tuoi dolori ossei è del piombo che maneggi ogni giorno. Esso si assorbe attraverso la pelle, e inalando la sua polvere mentre si respira. Se vuoi vivere ancora a lungo segui i miei consigli.»
Lucia era una giovane donna, all’epoca aveva venti anni, piuttosto alta, mora, dagli occhi nocciola sempre in movimento, alla curiosa ricerca di ogni singolo dettaglio. Nulla le sfuggiva di quanto stesse accadendo intorno a lei, aveva un udito finissimo, e anche capacità di preveggenza; inoltre era in grado di curare con le erbe e i rimedi naturali una gran varietà di malattie. Questo era quello che sapeva chi la conosceva. In realtà, Lucia era dotata di poteri sconosciuti alla maggior parte delle persone comuni, ma cercava di non rivelarli a nessuno, soprattutto per il fatto che viveva sotto lo stesso tetto di suo zio. Era una bambina di nove anni quando, assistendo al rogo di Lodomilla Ruggieri sulla pubblica piazza, era rimasta sconvolta dallo spettacolo raccapricciante dell’esecuzione. La nonna la teneva per mano in mezzo alla folla che aspettava che la condannata uscisse dalla rocca in cima alla Salita della Morte. La donna, in sella a un mulo, le mani legate alle sue redini, i vestiti laceri che lasciavano scoperte le sue nudità, era visibilmente provata dalle torture che gli inquisitori le avevano fatto infliggere al fine di confessare le sue colpe. Aveva un occhio pesto, una spalla slogata e, quando fu fatta scendere dal mulo, quasi non era neanche in grado di reggersi in piedi. Fu legata al palo, con le braccia in alto, in modo che non si accasciasse sulle ginocchia. Poi fu disposta la legna sotto i suoi piedi e intorno alle sue gambe. Un sacerdote le si avvicinò con la croce: «Rinneghi Satana?» Per tutta risposta, Lodomilla aveva sputato alla croce e al sacerdote e le fiamme erano state appiccate alla catasta. Le urla della donna che bruciava erano disumane, Lucia non poteva sopportarle, e aveva pensato intensamente che se in quel momento fosse iniziato a piovere a dirotto, l’acqua avrebbe spento il fuoco e la poveraccia si sarebbe potuta salvare in qualche modo. Guardò il cielo e lo vide caricarsi in breve di nuvole nere minaccianti pioggia. Lucia capì che bastava che con il pensiero ordinasse alle nuvole di piovere e si sarebbe scatenato il diluvio. La nonna, che conosceva le potenzialità della bambina, alla quale aveva cominciato a insegnare i primi rudimenti della magia, la fermò appena in tempo.
«Se non vuoi fare la stessa fine di Lodomilla, frena i tuoi istinti. È la Dea che ha rivoluto a sé la nostra amica, altrimenti con le sue arti magiche sarebbe scampata alle fiamme. Fra poco finirà di soffrire e il suo spirito sarà accolto dalla Buona Dea.»
Si sentì il rombo di qualche tuono, ma non cadde una sola goccia d’acqua. In breve le nubi si dileguarono e il cielo si rasserenò. L’azzurro della giornata di fine maggio era attraversato solo dalla colonna di fumo nero che si alzava dalla pira. Lodomilla era ormai un tizzone ardente senza vita. Qualcuno continuò a gettare fascine e alimentare il fuoco fino a che della strega non rimasero che le ceneri.
Da quel giorno Lucia aveva intuito che, con i suoi poteri, poteva dominare i vari elementi della natura, mettendoli al proprio servizio, sia nel bene che nel male. La sua nonna aveva cercato di guidarla nel cammino per arrivare al