Il Dono Del Reietto. Mario Micolucci

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Il Dono Del Reietto - Mario Micolucci

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la sua testa dovesse entrare a farne parte.

      «Prima di morire voglio vederlo per l'ultima volta» pensò ad alta voce, mentre si avviava verso il nascondiglio del suo piccolo tesoro. «Forse, se lo riporterò al vivaio come un trofeo, mi risparmieranno... o forse, no.»

      Raggiunto il luogo, spostò alcuni rovi dal ceppo di un vecchio albero e da una fessura sotto una grossa radice, sfilò lo strano bastone.

      

      rg.191.FFF.F1E.8:08/04/11522 (Dharta Misathon)

      Djeek prese il bastone fra le mani, non sembrava né di legno né di ossa né di metallo, probabilmente era di pietra, di una strana pietra nera, levigata e lucida: infatti, era più pesante di quanto la sua forma esile facesse intuire. Aveva un disegno lineare e privo decorazioni tranne che per una grossa gemma incastonata sulla testa attraverso quattro piccoli fermi dalla forma che il goblin associava ai denti del Verme Primordiale.

      La gemma era nera, ma Djeek ricordava di averla vista brillare di una luce verde. Questo era avvenuto quando l'umano che aveva ucciso il mostro della palude si era immobilizzato assomigliando a una statua. Si era imbattuto altre volte negli uomini: spesso tra il bottino delle razzie, venivano riportati alcuni di essi. Arrivavano nudi e legati con robuste corde alle cavalcature ferine degli incursori. Erano tutti più alti e poderosi di qualsiasi goblin, però non erano molto resistenti. Venivano messi a lavorare, ma morivano subito o di fame o di malattia o, addirittura, di fatica: non a caso era un insulto diffuso dire "sei fragile come un umano". La loro carne non era un granché, Djeek la trovava pessima: essa veniva data ai groppalupi cavalcati dai razziatori oppure ai piccoli goblin; gli adulti si guardavano dal mangiarla, perché temevano di assimilarne la vulnerabilità. L'uomo a cui apparteneva il bastone era, però, strano. Un goblin qualsiasi non avrebbe notato alcuna differenza con gli altri, ma Djeek, acuto osservatore, aveva scorto delle anomalie: gli strani occhi, come fessure, il colorito più giallognolo e la statura piuttosto minuta.

      Ricordava quanto fosse potente il bastone, ma aveva constatato che non lo fosse abbastanza per sopraffare i mostri per antonomasia, i mostri che bastava nominare per raggelare il cuore anche dei più temerari: gli elfi. Ne aveva sentito parlare nei racconti del terrore che si scambiavano al vivaio: erano i più grandi tra loro a raccontarli ai più piccoli per vederli tremare di paura. Ora, lui li aveva visti e, miracolosamente, era ancora vivo: avrebbe voluto raccontarlo agli altri, ma chi gli avrebbe creduto?

      Erano terrificanti: alti almeno quanto un umano, dai lineamenti delicati, esili eppure così agili ed energici; avevano la carnagione pallida e grigiastra e i capelli del ripugnante colore dell'argento. Longilinei, affilati e lucenti, gli elfi sembravano delle spade micidiali. La cosa peggiore fu la tempesta che, nel vederli, si era scatenata dentro di lui: aveva sentito un odio ancestrale pervaderlo, un odio che bruciava dentro e che faceva più male dei pugni di Hork. Gli si erano drizzati tutti peli sulla testa e sulla schiena; non riusciva a fare a meno di mostrare le zanne e, a ogni pesante respiro, la bava gli colava copiosamente dalla bocca, mentre il cuore tamburava furiosamente. Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo per domare l'orrore e rimanere fermo; il suo corpo avrebbe voluto muoversi d'istinto, non sapeva se per scagliarsi contro di loro o per fuggire.

      Stentava a credere che loro, i goblin, potessero in qualche modo discendere dagli elfi. Guardò la sua immagine riflessa sull'acquitrino. Era piuttosto esile, proprio come loro, sì, ma per il resto non c'era nulla di più differente: a partire dalla pelle verdognola e butterata, i lineamenti marcati, i peli radi e ispidi, le zanne, le gambe arcuate, i palmi delle mani e le piante dei piedi forniti di cuscinetti e le unghie come artigli smussati. Gli elfi grigi erano completamente inodori, i goblin, invece, avevano il fiero odore dei lupi.

      Come tutti i cuccioli, Djeek, non aveva mai assistito ufficialmente al Rito della Nascita, tuttavia la curiosità e l'interesse lo avevano portato, nell'occasione, a nascondersi in un angolo del vivaio lontano dallo schiamazzo dei suoi compagni. Da lì, aveva potuto udire in maniera fievole, ma piuttosto comprensibile il rullare tamburi, le urla tribali e soprattutto le parole. Durante il Rito, gli sciamani rievocavano l'origine della loro razza, esso prevedeva il sacrificio di un elfo. Purtroppo, negli ultimi anni il confinamento nella Grande Palude li poneva in territori distanti da quelli in cui questi vivevano. Pertanto, veniva usato un fantoccio con addosso qualche accessorio elfico rimediato nei saccheggi. Djeek aveva persino memorizzato le parole del Rituale: esse formulavano una cantilena antitetica a qualsiasi forma di poesia. Cominciò a recitarlo, mentre ripuliva il bastone dalla melma e dalle alghe:

      La Guerra dei Quattro volgeva al termine

      Tutti avevano perso

      I Primi Nati dormivano da tempo

      E il Mondo moriva

      Idron il Placido, Idron dell'Acqua

      Idron l'Inarrestabile piangeva per la sorte degli elfi degli abissi

      e grandi tsunami affogavano i viventi in gorghi profondi

      Petra l'Affidabile, Petra della Terra

      Petra l'Inamovibile tremava per la sorte degli elfi delle profondità

      e terribili terremoti inghiottivano i viventi in crepacci bui

      Tempèra l'Algida, Tempèra del Gelo e del Fuoco

      Tempèra il Furente ruggiva per la sorte degli elfi di brina e di fiamma

      e spaventose eruzioni incenerivano i viventi e conseguenti glaciazioni assideravano i superstiti

      Spiral il Libero, Spiral dell'Aria

      Spiral l'Inafferrabile si straziava per la sorte degli elfi delle nuvole

      e inarrestabili uragani risucchiavano i viventi in cieli tempestosi

      La Guerra dei Quattro volgeva al termine

      Tutti avevano perso

      I Primi Nati dormivano da tempo

      E Xantis moriva

      Energon l'Arbitro, Energon del Magicka, dall'alto della Luna Clessidra taceva e osservava

      I Quattro si servivano dell'energia del suo Mondo per plasmare gli elementi

      tuttavia Egli la centellinava e scandiva lo scorrere del tempo di cui era padrone

      si dichiarava neutrale ma la sua Arena li aveva incanalati verso la condanna

      I Quattro erano prossimi ad abbandonare la Tenzone

      Energon del Tempo avrebbe regnato anche sulle loro opere

      I Dharta suoi figli erano al sicuro nella Clessidra Celeste

      non combattevano ma scrivevano e ogni cosa annotavano

      La Guerra dei Quattro volgeva al termine

      Tutti avevano perso

      I Primi Nati dormivano da tempo

      E l'Arena degli Dei moriva

      Tron il Supremo non era appagato

      Egli voleva dichiarare un vincitore

      Nessuno

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