Il Giudice E Le Streghe. Guido Pagliarino

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Il Giudice E Le Streghe - Guido Pagliarino

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s'era rivolto al piovano dichiarando, in preda al vino, d'aver avuto il membro levato dalla magia di Elvira, il sacerdote aveva compreso che si trattava solo di sbornia e che il rimedio era l'astinenza. Aveva dunque finto di controllare fra le gambe dell'uomo la scomparsa del virile attributo e poi, aveva rinchiuso il Brunacci perché smaltisse i fumi, anche grazie all’assunzione di molta acqua: comune, non benedetta, diversamente da quanto gli aveva detto per rincuorarlo. Non aveva previsto le conseguenze. Il paese aveva preso a mormorare contro Elvira, poi a chiedere a gran voce che fosse catturata. Peggio, era presente in quei giorni in paese, in visita al notaio, il giudice Astolfo Rinaldi.

      "Rinaldi!" feci eco nell'udire il nome del vecchio superiore, interrompendo il racconto del moribondo.

      Era lui il fratello del notaio. Grazie a potenti parenti della cognata, era stato assunto al Tribunale di Roma, dove aveva prestamente fatto carriera, fino al massimo grado. Forse proprio lui, mi chiesi, aveva poi imbucato nell'apposita cassetta dell'Inquisizione a Roma la lettera anonima? Per vendetta? D'altronde pure il curato, spaventato dalla nuova situazione e in particolare da certe occhiatacce che il giudice gli aveva scoccato appena prima di ripartire, aveva a sua volta presentato, alla gendarmeria del comune, la propria ufficiale denunzia, subito trasmessa all'Urbe. Il sacerdote, vilmente, aveva temuto di perdere la propria vita, anzi l'aveva ritenuto probabilissimo, ché non sarebbe certo stato il primo prete arrestato, torturato e condannato per complicità in stregoneria. Il resto mi era noto e io stesso l'avevo portato all'estrema conseguenza. Colmo di rimorso per la sua falsa testimonianza, oltretutto giurata innanzi a Dio, dopo il processo il curato aveva preso poveramente dimora nella stanzetta dov’era stato rinchiuso il Brunacci, aveva indossato il cilicio, s'era sottoposto a umiliazioni d'ogni sorta, aveva rinunciato a qualsiasi piacere, anche il più innocente. In punto di morte, divenuti futili i timori che, sia pure nel rimorso, avevano seguitato ad avvincerlo, aveva finalmente voluto avvertirmi, perché altro ancora era successo, questa volta a Marietta, la bionda e bella figlia giovinetta di Elvira. Quando il santo drappello aveva bussato, la madre, intuendo che qualche male stava arrivando, aveva cacciato Marietta sotto il letto, dopo averle raccomandato a bassa voce di stare immobile e in silenzio, qualunque cosa fosse accaduta. Dopo che gli inquisitori se n’erano partiti con Elvira, la ragazza era uscita e, non sapendo chi avesse preso sua madre, s’era rivolta al piovano denunciando che l’avevano rapita. L’arciprete, al corrente dell’arresto, non aveva chiarito l’equivoco; anzi le aveva detto che, ormai, per Elvira non si sarebbe potuto fare nulla: ben lo si sapeva che, per queste cose, non c’erano gendarmi bastanti! e si mettesse dunque il cuore in pace. Il giorno stesso l’aveva sistemata come serva presso contadini. Dopo l’esecuzione della madre però, il Rinaldi era giunto a Grottaferrata con tre guardie del tribunale dell’Urbe, aveva catturato la giovinetta con la scusa d'un supplemento d'indagini e l’aveva portata a Roma. Forse aveva voluto vendicarsi d'Elvira colpendone anche la figlia? Il curato mi chiedeva di indagare su questo, per giustizia, e se alla luce della legge, ch'egli non conosceva, ci fosse stato reato, di punire il colpevole; e soprattutto di conoscere, se possibile, la sorte della ragazza e, qualora ancora in vita, di salvarla da eventuali altri mali. Solo così avrebbe potuto morire in pace.

      Promisi al morente che avrei cercato, per quanto nelle mie forze, di fare giustizia.

      Per tutto il resto della notte, ospitato nella ricca vecchia camera da letto del curato, pur tra morbidissime coltri e su un comodo materasso non chiusi occhio.

      Verso mezzanotte, il moribondo spirò; sentii infatti le preghiere del giovane prete; ma non mi alzai per unirmi a lui.

      Avevo dentro di me un gran senso di fiacchezza. Non avrei dovuto avere rimorsi per l'ingiusta condanna di Elvira perché avevo agito, come sempre, secondo la legge e secondo coscienza; ma provavo un'inquietudine molesta e una leggera nausea che non m'avrebbe lasciato fino al mattino.

      Al levare del sole, dopo aver pregato sulla salma del sacerdote ripartii; e ripartii solo, senza attendere la guardia. Agii d'impulso; ma riflettendoci, io penso adesso che, pur essendomi razionalmente assolto, il mio istinto desiderasse, nel maggiore pericolo di quel ritorno solitario, chiamare punizione. D'altronde io avevo, e sempre ho mantenuto nella vita, grande coraggio fisico; e maneggiavo perfettamente spada e stiletto che, come magistrato, avevo il diritto di portare. Mio padre infatti, non appena ero stato assunto, m'aveva fatto impartire lezioni da un suo cliente, il maestro d'armi Josè Fuentes Villata, uomo magro ma vigoroso e, cosa rara per un mediterraneo, altissimo, quasi un braccio più di me: già abile guardia personale di Alessandro VI, egli s'era mantenuto, dopo la morte del Borgia, con la sua scuola di scherma. Da qualche tempo, ormai non più giovane ma ancora abile spadaccino, era divenuto capo della scorta privata dell'ex giudice Rinaldi.

      Non fu dunque con paura che ripartii solo.

      Prudenza avevo avuto invece, sempre, verso i potenti: che rischio è mai, infatti, quello dell'attacco di un brigante da strada a petto dell'inimicizia d'uno soltanto di loro che prenda a malvolerti e ti perseguiti? Astolfo Rinaldi era divenuto potentissimo. Questi sarebbe stato il vero pericolo, se l'avessi attaccato. Egli, entrando nella cerchia di Bartolomeo Spina e quindi del suo protettore Medici da Milano, e già prima che questi divenisse papa Clemente, aveva raggiunto il grado di Giudice Generale; poi, dopo il sacco di Roma, mentr'io ero stato nominato al suo posto, egli era stato levato a cavaliere nobiluomo e promosso Maggiordomo Onorario alle Stanze di Sua Santità. Ne aveva avuto vari alti incarichi, sia diplomatici sia privati, e, si sussurrava, pure incombenze segrete. Era inoltre, fin dai tempi del suo servizio in magistratura, nella grazia del gelido e potentissimo principe di Biancacroce.

      Conoscevo ormai da tempo il Rinaldi quale uomo bramoso di denaro. Egli, quand'era ancora magistrato, era riuscito ad accumulare ingenti ricchezze. Aveva fatto sontuosi regali a Clemente, quel pontefice che, dopo la morte, sarebbe stato chiamato il papa del malanno, egli pure affamato di denaro e assetato di lodi di cui il giudice gli era stato prodigo; e da tutto questo, certamente, era venuto al cavalier Rinaldi il guiderdone del suo successo.

      Veramente, all'inizio della mia carriera io non avevo compreso quell'uomo e, ingenuo giovane desideroso di giustizia, l'avevo tenuto per maestro; ma, dopo un certo tempo, avendo egli inteso la mia devozione e avendola presa per timida soggezione, ritenendo di potersi fidare s'era un poco scoperto. Un giorno, nel quale era particolarmente allegro e forse aveva bevuto più del lecito, m'aveva detto senza remore: "Ci mangiano tutti sulla caccia alle streghe: io, lei... tutti! È un affare: sbirri, carcerieri, scrivani e cancellieri, aguzzini, boia; taglialegna, falegnami, fochisti; e… noi giudici." M'aveva strizzato l'occhio. "Viva quelle maledette!" aveva soggiunto, levando in alto la mano come tenendovi una coppa da brindisi: "… e il vantaggio politico? I potenti fanno quanto loro aggrada e la colpa d'ogni male è delle streghe. O, magari, degli ebrei, i ‘perfidi uccisori di Cristo’; e quanto ai bottegai? Qual vantaggio che la plebe se la prenda con loro! Quale bene che, quando un principe riduca il contenuto in metallo prezioso della moneta, quella svalutazione sia attribuita a quei poveracci i quali, dovendo in conseguenza aumentare i prezzi, appaiono la causa prima di quel male! e tocca poi a noi d'intervenire per metterli alla pubblica gogna onde sedare il volgo e, ogni tanto, magari, d'impiccarne qualcuno. Qual successo per l'ordine pubblico, caro Grillandi! Che pace per i grandi, cardinali, principi, banchieri! È tutta un'industria, caro mio, e noi siamo i fedeli servitori di quell'immenso potere. Non ne prova orgoglio?"

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