Il fu Mattia Pascal / Покойный Маттиа Паскаль. Книга для чтения на итальянском языке. Луиджи Пиранделло
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Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che, per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uomo si distrae facilmente.
Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso – se è nuvolo – ci lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita; e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
Cominciamo.
III
La casa e la talpa
Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto mio padre. Non l’ho conosciuto. Avevo quattr’anni e mezzo quand’egli morì. Andato con un suo trabaccolo in Corsica, per certi negozii che vi faceva, non tornò più, ucciso da una perniciosa, in tre giorni, a trentotto anni. Lasciò tuttavia nell’agiatezza la moglie e i due figli: Mattia (che sarei io, e fui) e Roberto, maggiore di me di due anni.
Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a credere che la ricchezza di mio padre (la quale pure non gli dovrebbe più dar ombra, passata com’è da un pezzo in altre mani) avesse origini – diciamo così – misteriose.
Vogliono che se la fosse procacciata giocando a carte, a Marsiglia, col capitano d’un vapore mercantile inglese, il quale, dopo aver perduto tutto il denaro che aveva seco, e non doveva esser poco, si era anche giocato un grosso carico di zolfo imbarcato nella lontana Sicilia per conto d’un negoziante di Liverpool (sanno anche questo! e il nome?), d’un negoziante di Liverpool, che aveva noleggiato il vapore; quindi, per disperazione, salpando, s’era annegato in alto mare. Così il vapore era approdato a Liverpool, alleggerito anche del peso del capitano. Fortuna che aveva per zavorra la malignità de’ miei compaesani.
Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio padre non ebbe mai pe’ suoi commerci stabile sede: sempre in giro con quel suo trabaccolo, dove trovava meglio e più opportunamente comprava e subito rivendeva mercanzie d’ogni genere; e perché non fosse tentato a imprese troppo grandi e rischiose, investiva a mano a mano i guadagni in terre e case, qui, nel proprio paesello, dove presto forse contava di riposarsi negli agi faticosamente acquistati, contento e in pace tra la moglie e i figliuoli.
Così acquistò prima la terra delle Due Riviere, ricca di olivi e di gelsi, poi il podere della Stìa, anch’esso riccamente beneficato e con una bella sorgiva d’acqua, che fu presa quindi per il molino; poi tutta la poggiata dello Sperone ch’era il miglior vigneto della nostra contrada, e infine San Rocchino, ove edificò una villa deliziosa. In paese, oltre alla casa in cui abitavamo, acquistò due altre case e tutto quell’isolato, ora ridotto e acconciato ad arsenale.
La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia madre, inetta al governo dell’eredità, dovette affidarlo a uno che, per aver ricevuto tanti beneficii da mio padre fino a cangiar di stato, stimò dovesse sentir l’obbligo di almeno un po’ di gratitudine, la quale, oltre lo zelo e l’onestà, non gli sarebbe costata sacrifizii d’alcuna sorta, poiché era lautamente remunerato.
Santa donna, mia madre! D’indole schiva e placidissima, aveva così scarsa esperienza della vita e degli uomini! A sentirla parlare, pareva una bambina. Parlava con accento nasale e rideva anche col naso, giacché ogni volta, come si vergognasse di ridere, stringeva le labbra. Gracilissima di complessione, fu, dopo la morte di mio padre, sempre malferma in salute; ma non si lagnò mai de’ suoi mali, né credo se ne infastidisse neppure con se stessa, accettandoli, rassegnata, come una conseguenza naturale della sua sciagura. Forse si aspettava di morire anch’essa, dal cordoglio, e doveva dunque ringraziare Iddio che la teneva in vita, pur così tapina e tribolata, per il bene dei figliuoli.
Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena di palpiti e di sgomento: ci voleva sempre vicini, quasi temesse di perderci, e spesso mandava in giro le serve per la vasta casa, appena qualcuno di noi si fosse un po’ allontanato.
Come una cieca, s’era abbandonata alla guida del marito; rimastane senza, si sentì sperduta nel mondo. E non uscì più di casa, tranne le domeniche, di mattina per tempo, per andare a messa nella prossima chiesa, accompagnata dalle due vecchie serve, ch’ella trattava come parenti. Nella stessa casa, anzi, si restrinse a vivere in tre camere soltanto, abbandonando le molte altre alle scarse cure delle serve e alle nostre diavolerie.
Spirava, in quelle stanze, da tutti i mobili d’antica foggia, dalle tende scolorite, quel tanfo speciale delle cose antiche, quasi il respiro d’un altro tempo; e ricordo che più d’una volta io mi guardai attorno con una strana costernazione che mi veniva dalla immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti da tanti anni lì senz’uso, senza vita.
Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma era una sorella di mio padre, zitellona bisbetica, con un pajo d’occhi da furetto, bruna e fiera. Si chiamava Scolastica. Ma si tratteneva, ogni volta, pochissimo, perché tutt’a un tratto, discorrendo, s’infuriava, e scappava via senza salutare nessuno. Io, da ragazzo, ne avevo una gran paura. La guardavo con tanto d’occhi, specialmente quando la vedevo scattare in piedi su le furie e le sentivo gridare, rivolta a mia madre e pestando rabbiosamente un piede sul pavimento:
– Senti il vuoto? La talpa! la talpa!
Alludeva al Malagna, all’amministratore che ci scavava soppiatto la fossa sotto i piedi.
Zia Scolastica (l’ho saputo dipoi) voleva a tutti i costi che mia madre riprendesse marito. Di solito, le cognate non hanno di queste idee né dànno di questi consigli. Ma ella aveva un sentimento aspro e dispettoso della giustizia; e più per questo, certo, che per nostro amore, non sapeva tollerare che quell’uomo ci rubasse così, a man salva. Ora, data l’assoluta inettitudine e la cecità di mia madre, non ci vedeva altro rimedio, che un secondo marito. E lo designava anche in persona d’un pover’uomo, che si chiamava Gerolamo Pomino.
Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora e si chiama Gerolamo come il padre: amicissimo mio, anzi più che amico, come dirò appresso. Fin da ragazzo veniva col padre in casa nostra, ed era la disperazione mia e di mio fratello Berto.
Il padre, da giovane, aveva aspirato lungamente alla mano di zia Scolastica, che non aveva voluto saperne, come non aveva voluto saperne, del resto, di alcun altro; e non già perché non si fosse sentita disposta ad amare, ma perché il più lontano sospetto che l’uomo da lei amato avesse potuto anche col solo pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere – diceva – un delitto. Tutti finti, per lei, gli uomini, birbanti e traditori. Anche Pomino? No, ecco: Pomino, no. Ma se n’era