Nel Segno Del Leone. Stefano Vignaroli

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Nel Segno Del Leone - Stefano Vignaroli

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in maniera del tutto inaspettata, entrò a un certo punto nel salone dall’ingresso opposto a quello da cui erano entrati tutti gli altri, quello utilizzato da chi proveniva dalla terraferma, dal centro abitato di Sirmione. Andrea appariva provato, era molto pallido e aveva gli occhi cerchiati di scuro.

      «Mio Dio, Andrea! Sembra proprio che le navi siano il tuo peggior nemico!», e così dicendo Francesco Maria si avvicinò al suo amico, stringendolo in un affettuoso abbraccio. «Per fortuna ho altri progetti per te, e domani ne parleremo in tutta tranquillità. Ora accomodati e godi appieno della mia ospitalità. Potrai rinfrancare corpo e spirito, e domani ti sentirai un altro uomo!»

      Vide Andrea guardarsi intorno, ammirare la tavola imbandita, gettare lo sguardo sulle danzatrici orientali che, ormai quasi tutte a seni scoperti, qualcuna anche del tutto nuda, si concedevano alle voglie represse dei nobili guerrieri. Poi il giovane Capitano d’armi si avvicinò alla tavola, piluccò qualche oliva in salamoia, bevve una coppa di vino ed espresse il desiderio di congedarsi.

      «Raccontami del viaggio, Andrea! Come mai sei sceso dalla nave e sei giunto fin qui da terra?», provò a trattenerlo Francesco.

      «Mio caro amico, lo hai detto tu stesso poco fa. Ne parleremo domani con calma. Ora sono molto stanco e desidero solo ritirarmi per riposare.»

      «Vuoi che ti mandi compagnia in camera? Quelle bellezze esotiche sono in grado di far resuscitare un cadavere!»

      «Ma non me. In questo momento non sarei in grado di sfiorare una donna, che non sia la mia promessa sposa, neanche con un dito. Fai conto che abbia accettato la tua offerta e porta la ragazza in camera con te.»

      Francesco Maria scoppiò in una risata.

      «Non posso! Nelle mie stanze c’è già Eleonora. Anch’io, in questi giorni, non sono in grado di sfiorare nessun’altra donna che non sia la mia amata.»

      CAPITOLO 4

      “ Ognuno è quello che persegue.

       Io sono quel che sono, sono quel che amo,

       amo quel che sono.”

       (Elio Savelli)

      Andrea ancora non riusciva a capacitarsi del perché aveva seguito senza batter ciglio gli uomini del Duca, proprio pochi istanti prima della cerimonia di nozze con la sua amata Lucia. Il suo potente destriero bianco, ancora agghindato a festa, mordeva la strada, senza faticare affatto a star dietro agli armigeri che si dirigevano di gran carriera oltre l’Esino, verso Monte Returri. La cavalcata era agevole, senza bardature, senza neanche la celata in testa. La folta capigliatura bionda di Andrea accarezzava l’aria svolazzando. Le maniche del farsetto cremisi si gonfiavano e si sgonfiavano ai capricci del vento. Ma la mente di Andrea era in subbuglio. Pensieri incapaci di essere tenuti a freno si affollavano nella sua testa e si affacciavano prepotenti verso le tempie, con la speranza di essere presi nella giusta considerazione.

      «Hai sempre perseguito la speranza di poterti unire in matrimonio con Lucia. E ora che era finalmente giunto il momento, che fai? La abbandoni lì, sul sagrato della Chiesa!», lo iniziava a torturare il primo pensiero. «Ricorda, Andrea! Ognuno è ciò che persegue nella vita! Non raggiungere i propri obiettivi significa fallire miseramente.»

      «Io sono quel che sono!», si difendeva Andrea nei confronti di se stesso. «Amo essere ciò che sono. E sono un uomo d’armi, e come tale devo obbedienza a chi mi comanda. Quindi ho fatto la scelta giusta. Non ci si può sottrarre al proprio dovere per causa di una donzella.»

      «Tu ami ciò che sei, ma sei anche ciò che ami», lo rintuzzava un secondo pensiero, senza dargli tregua, in un incredibile gioco di parole. «E chi ami è Lucia. Con lei dovresti essere un unico corpo e un’unica anima. Che differenza c’era nel seguire questi uomini adesso, nell’immediato, piuttosto che domani, o domani l’altro o fra una settimana? E la tua bambina, Laura, a cui hai regalato sorrisi fino a questa mattina, facendole capire che adesso poteva confidare sull’affetto di un padre, che cosa penserà di te? Che sei un vigliacco, che ti sottrai all’amore e agli affetti a seconda di come gira il vento. Non era lecito almeno spiegarle perché te ne stai andando?»

      «Non sono una femminuccia, sono un Capitano d’armi!», replicava con vigore lo spirito guerriero di Andrea. «Se questi uomini avevano una gran fretta di condurmi con loro, un motivo deve esserci, e ben grave, da quello che ho potuto leggere sulla missiva inviatami dal Duca. Un guerriero non si sottrae al suo dovere. Mai! Tanto meno per questioni d’amore. L’amore può aspettare, il nemico no.»

      Immerso in queste disquisizioni mentali, Andrea non si era neanche accorto che, superata la torre di guardia in cima a Monte Returri, il drappello di soldati cui stava appresso, attraversato il breve centro abitato di Santa Maria delle Ripe, si stava dirigendo, in veloce discesa, verso la vallata del Fiume Musone. Mise a tacere tutti i pensieri e si concentrò sul percorso. Se si dovevano dirigere verso Mantova, la strada da seguire non era certo quella, che piegava verso meridione. Logica avrebbe voluto che si percorresse la strada Fiammenga fino a Monte Marciano e poi si risalisse lungo le coste Adriatiche, fino a Ravenna, per poi piegare verso Ferrara. E da lì raggiungere Mantova in maniera agevole, senza difficoltà alcuna. La strada che stavano percorrendo portava dritti al Castello Svevo del Porto, a sud del monte di Ancona, tra la foce del fiume Musone e quella del Potenza. Un castello fatto edificare a suo tempo da Federico II a difesa e baluardo di un importante porto in cui far stazionare la flotta ghibellina. Al solo pensiero del mare, Andrea ebbe un conato di vomito.

      E ben presto, in effetti, la vallata del Musone si allargò verso il mare Adriatico. Lasciata sulla loro destra, in alto sulla collina, l’imponente basilica di Loreto, dedicata al culto della Madonna e protetta da possenti bastioni, Andrea e i suoi compagni seguirono un ampio stradone per alcune leghe, giungendo in vista della loro meta. La sagoma del castello Svevo, con il suo imponente mastio che svettava verso il cielo, si avvicinava veloce. Il sole stava ormai calando verso l’orizzonte e, mettendo al passo le cavalcature, si poteva ascoltare il rumore della risacca e annusare l’odore salmastro portato dal vento. Il tramonto incendiava il cielo di un rosso acceso, sfumante in tonalità di arancione laddove il sole stava nascondendosi dietro la linea dell’orizzonte, marcata dai monti dell’Appennino. Scene e colori che avrebbero infuso il sentimento della nostalgia nel cuore di qualsiasi persona, figuriamoci in quello di Andrea, già in subbuglio per tutta la vicenda che stava vivendo. Avrebbe voluto rigirare il cavallo e tornare di corsa a Jesi, alla sua amata, alla sua casa, ai suoi affetti. Ma ancora una volta, i nitriti dei cavalli e le grida degli armigeri lo riportarono alla realtà. Erano dinanzi all’ingresso principale del castello, in un grande spiazzo quadrangolare che, dal lato opposto, si apriva verso il mare. Mentre i suoi accompagnatori lanciavano grida alle guardie agli spalti, per farsi riconoscere e far calare il ponte levatoio, Andrea scrutò il porto. Il mare era calmo, piatto, quasi una tavola. Alcune stelle già brillavano in cielo, un cielo che stava assumendo i toni del turchese e che presto sarebbe divenuto ben più scuro, avvolgendo cose e persone nel nero mantello della notte. La sagoma di un’enorme imbarcazione, un trealberi, colpì l’attenzione di Andrea. In vita sua non aveva mai visto un vascello così grande. E la paura che l’indomani vi sarebbe dovuto salire sopra attanagliò il suo cuore. Sull’albero più alto, quello centrale, sventolava lo stendardo della Repubblica Serenissima, un leone disteso, il leone di San Marco, con un libro aperto, il Santo Vangelo, tra le zampe anteriori. Quando il ponte levatoio fu disceso e le enormi ante del portale si aprirono, il capitano delle Scolte di guardia al castello uscì e si avvicinò ad Andrea, porgendogli un drappo ripiegato. Si piegò al suo indirizzo in un ossequioso inchino e gli porse lo stendardo.

      Andrea

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