ENtità. Diego Maenza
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Nonostante tutto, i ragazzi erano sempre gentili con lui e, quando si accorgevano che Rospo gironzolava con l'intento di unirsi alle loro attività ricreative, si rallegravano di poter contare sulla sua amicizia. In questo modo, il giorno dopo avrebbero avuto un argomento di conversazione molto importante quando entravano a scuola. Gli tiravano la palla di stracci e, come sempre, Rospo la bloccava con la sua robusta sacca vocale, che lo costringeva a emettere un gracidio forte e sano. Nei giochi col pallone, Rospo fungeva sempre da portiere, in quanto le sue gambe potenti gli permettevano di dare lo slancio necessario per indirizzare il suo corpo pesante verso il lato della palla e fermarla con le dita palmate. Poi Rospo sfoderava un sorriso di compiacenza e felicità e i ragazzi lo ricompensavano con alcuni insetti viscidi che raccoglievano clandestinamente per lui con pazienza e affetto. Ah, com'era bella la vita! Fino a quando le madri del quartiere sporgevano le loro teste spettinate dalle finestre di ogni casa, alcune mentre lavavano i piatti, altre mentre facevano il bucato, e ripetevano in coro i nomi dei loro figli in modo che questi accorressero alle loro chiamate e, ovviamente, perché si allontanassero dalla presenza nociva di Rospo, il quale avrebbe potuto trasmetter loro (così affermavano quando rimproveravano i propri figli all'interno della casa) malattie come la zampa rossa, chitridiomicosi, neoplasie, papillomi o salmonellosi. Allora Rospo rimaneva solo e si recava saltellando nell'unico rifugio che gli permetteva di sfuggire a quella tangibile realtà: la palude.
In mezzo a quella solitudine, Rospo percorreva per settimane le paludi di grandi dimensioni; altre volte attraversava in maniera perfetta le brevi distese di fango e ne usciva rinfrescato. Ma ciò che attirava la sua attenzione era frequentare quello che cominciò a chiamare il pantano poetico. Lì si radunavano molti dei suoi simili per cantare alla notte, a volte in coro, a volte in un assolo che sapeva molto di mistico e reverenziale. Tuttavia, Rospo imparò con umiltà, portando dentro di sé un orgoglio ostinato e una comprensione personale di sapere di essere nato con una virtù che nessuno, nemmeno la purezza più cristallina di qualche laguna incantata, poteva cancellare. Era convinto di avere in sé il dono della poesia e che la sua illuminazione interiore trascendesse i concerti sempre più insipidi cantati in coro dalle rane comuni.
Se da ragazzo Rospo era stato un problema per le madri dei ragazzi, dopo la pubertà il giovane e bel Rospo si sarebbe rivelato una complicazione per le madri delle ragazze. Non è che avessero qualcosa contro Rospo a livello personale, anzi, il suo fascino ammaliava, in segreto, anche le mamme più decorose, le quali dovevano comunque essere discrete e correggere il comportamento delle proprie figlie. Il motivo per cui disprezzavano Rospo era perché era un poeta; perché, secondo le oneste signore delle famiglie più onorevoli, Rospo era un fannullone. Di cosa vivrai, figlia mia, se lui sa solo frequentare gli stagni? Ma alle ragazze, è risaputo, sembrano superflui, anacronistici, noiosi, antiquati, inutili ed esagerati i consigli dei loro genitori, che disprezzano avidamente. Al contrario, trovano attraente quell'enigmatico barlume di mistero che gli esseri eccezionali, e in particolare i Rospo poeti, di solito hanno intorno a sé. Le ragazze iniziarono a diventare matte dal desiderio che Rospo le invitasse solo una volta a un appuntamento nella palude o per un paio di salti sulle ninfee. Non mancarono le liti che arrivarono ai graffi, alle tirate di capelli e, naturalmente, ai setti rotti.
Rospo saltava indifferente a tutti questi rituali, perché la sua vita era dedicata interamente alla poesia. In quel periodo, pensieri esistenziali cominciarono a covare dentro Rospo. Sedendosi su una pietra nella palude formatasi di maniera temporanea in un periodo caldo dell'anno, chiunque avesse alzato lo sguardo indirizzandolo verso est, avrebbe notato nelle costellazioni il segno inevitabile del Rospo. Mettendo da parte le connotazioni esoteriche che una simile situazione può evocare, per il nostro personaggio quella figura sfuggente e vagamente riconoscibile non aveva altro significato che la brevità della vita stessa. Una stella, pensava Rospo, è molto più degna di essersi formata all'inizio dell'universo di qualsiasi essere cosciente che possa guardarla.
Il pensiero di Rospo è troppo pessimista, diranno i più drastici, che in questioni di natura pratica si distinguono sempre come i più assennati. Tuttavia, ci sarà una stirpe opposta di sognatori che, tralasciando le esaltazioni festive a cui i tempi che corrono ci hanno abituati, riconosceranno il valore del ragionamento del giovane Rospo. Ma veniamo al problema: lui non condivise mai il suo pensiero con nessuno, né lo mise mai per iscritto. D'altronde, non è un pensiero che dal punto di vista dei filosofi valga la pena analizzare, di quegli esseri tormentati, visitati solo dalla fatalità e dall'apatia e che non sono mai stati turbati dall'aroma indelebile delle muse, com’è il caso di questo Rospo meditativo che frequenta abitualmente la terribile armonia dei poeti. Non aveva mai incontrato un bardo di persona, è vero e lo ammetteva con orgoglio, poiché aveva sempre sostenuto la teoria per niente effimera che fare il bagno negli stagni dei poeti fosse un processo molto più straziante e profondo dell'ipotetica ma non impossibile opportunità di conoscerne le anime. Ciò di cui il nostro Rospo non si rese conto è che le due potessero essere la stessa cosa.
L'idea che Rospo aveva in merito alla poesia era bella ma assurda, diremmo stupiti. Ma in fondo non è così, poiché il Rospo che in quel momento stava allungando le anche alzandosi dalla pietra che fungeva da punto di vista sul promontorio, non scrisse mai una poesia.
Si potrebbe dire che le abbia perpetrate. Le conservò nella sua memoria durante quei giorni in cui ne ebbe bisogno, come per sostenere la sua vita sull'impalcatura delle illusioni, per inalare una boccata in più di speranza nel suo animo, per continuare a sostenersi sul filo del rasoio della sua vita; tutto questo per poi scartarle come chi cambia i fazzoletti a causa del raffreddore.
Convinto della solidità del suo dono, Rospo decise di abbandonare le paludi da cui aveva imparato tanto. Si allontanò da esse fisicamente ma non nello spirito, poiché portò con sé l'essenza delle distese di fango per espandere la sua particolare visione del mondo in ogni recital che iniziò a dare. Qualche notte di luna cantò nei parchi cittadini e le sue poesie irradiavano armonia. Non mancarono le persone affabili che gli lanciarono un paio di monete, seppur con un po' di paura, curiosità e interesse malsano per il suo ampio sorriso anfibio. A poco a poco, Rospo iniziò a guadagnarsi da vivere come artista itinerante, visitò ogni città del paese e il suo nome e la sua presenza iniziarono a essere conosciuti in tutta la nazione. Diversi giornalisti vollero intervistarlo, alcuni presentatori televisivi lo richiesero per i loro programmi, lo stesso Ministro della Cultura gli offrì un'importante posizione burocratica come Ambasciatore per la poesia. Editori privati di successo gli proposero di immortalare le sue poesie su carta; le case discografiche internazionali pretesero, senza successo, che firmasse contratti per incidere dischi dei suoi recital; un pluripremiato regista dall'altra parte del continente lo pregò (si dice in ginocchio) di recitare nel suo nuovo film; alcuni studiosi cercarono di proporlo come il candidato ideale per il Premio Nobel per la Letteratura. Rospo rifiutò ogni richiesta insistente. Disgustato dall'umanità e dai suoi spettacoli banali, Rospo lasciò le piazze per sempre.
Una notte piena di stelle scoprì una palude silenziosa lontana dai villaggi e si bagnò nei suoi fanghi. Sfiancato dalla turpitudine della fama e dalla melma della celebrità, trascorse un anno sabbatico nel fango. Da quella notte in poi, accorse ogni sera al richiamo della palude del silenzio come un vizio segreto che avrebbe mantenuto fino ai suoi ultimi giorni.
Dopo il meritato ritiro, Rospo tornò nella comunità che lo aveva visto crescere, con un'immensa angoscia sulle spalle e trafitto da un'infinita tristezza. Ciò nonostante, voleva essere gentile con la vita e provò a darsi una seconda possibilità. Cercò di contattare i suoi vecchi amici, quei ragazzi che lo invitavano a giocare con la palla e gli riservavano un trattamento caloroso; ma quei ragazzi di una volta, polverosi pretendenti atleti senza scarpe, erano spariti. Al loro posto c'erano gentiluomini semi-imborghesiti, istruiti in scuole private, annoiati e ingelatinati aspiranti cassieri di banca, dirigenti d'azienda o comuni burocrati, che ora non avrebbero voluto avvicinarsi a qualcuno come Rospo se non per malsana curiosità. Andò alla ricerca di quelle vergini che un tempo spasimavano per lui,