Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti. Italo Svevo

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Italo Svevo: Opere Complete - Romanzi, Racconti e Frammenti - Italo  Svevo

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distrazione gli era venuto fatto disforme dall’originale. Anche quando gli riusciva di rivolgere tutta la sua attenzione al lavoro, non procedeva con la rapidità di Miceni perché non sapeva copiare macchinalmente. Essendo attento, correva sempre col pensiero al significato di quanto copiava e ciò lo arrestava. Per un quarto d’ora non si udì che lo stridere delle penne e di tempo in tempo il rumore fatto da Miceni voltando le pagine.

      La porta si aprì con fracasso e sul limitare, ove rimase impalato per qualche istante, si presentò Ballina, l’impiegato che attendeva da Alfonso la lettera di Sanneo per farne altre copie.

      — E questa lettera?

      Era un bell’uomo dallo sguardo intelligente alquanto furbesco, un paio di mustacchi alla Vittorio Emanuele, la barba però non fatta. Fumava e il fumo non soffiato via, — lo avrebbe volontieri riassorbito per goderne di più, — riempiva i mustacchi e saliva coprendogli il volto fin sotto agli occhi. La sua giubba da lavoro doveva essere stata di color bianco, era giallognola ora, salvo che le maniche, adoperate per nettare le penne, all’avambraccio del tutto nere. Lavorava in una stanzetta che aveva l’entrata sul piccolo corridoio come quella di Miceni.

      Miceni alzò il capo con un sorriso amichevole. Ballina veniva veduto sempre volentieri perché buffone, il buffone della banca. Quella sera non aveva voglia e si lamentava. Aveva lavorato fino allora nel suo ufficio di informazioni ed ora doveva lavorare dell’altro; per la sera poi non si sapeva se c’era da cena. Affettava maggiore miseria di quanta ne avesse. Fece una volta trasecolare Alfonso il quale, come Ballina stesso si esprimeva, era spugna , col raccontargli che alla fine del mese si nutriva di Emulsione Scott regalatagli da un medico suo parente. Aveva parenti benestanti che dovevano aiutarlo perché ne diceva sempre bene.

      Entrò Sanneo come sempre correndo; lo seguiva Giacomo col volto da adolescente serio, un grande fascio di carte sulle braccia, al quale per eccesso di zelo teneva rivolto anche lo sguardo.

      Con accento ruvido Sanneo chiese a Ballina perché ancora non scrivesse.

      — Ma... — fece Ballina alzando le spalle — attendo di ricevere la lettera da copiarsi.

      — Non l’ha ancora ricevuta? — Rammentandosi ch’era Alfonso che doveva dargliela: — Non ne ha fatta ancora neppur una?

      Alfonso s’era alzato in piedi interdetto dallo sguardo bieco che gli veniva lanciato. Miceni rimanendo seduto osservò che neppur lui non ne aveva ancora finita alcuna. Sanneo voltò le spalle ad Alfonso, guardò la lettera di Miceni e lo pregò di consegnarla a Ballina non appena terminata. Uscì con la medesima fretta, preceduto da Ballina che voleva fargli vedere d’essere subito ritornato nella sua stanzetta, e seguito da Giacomo, impettito, che batteva i piedi per terra per dare importanza al suo piccolo passo.

      Pochi minuti dopo Miceni consegnò a Ballina la lettera per la copia e Alfonso udì dalla stanza vicina le bestemmie che Ballina mandava con voce grossa d’ira al vedere che la lettera era di quattro facciate.

      In un’oretta all’incirca Miceni terminò il suo lavoro. Con tutta calma rifece teletta, mise anche il cappello in testa con tanta cura come se non avesse avuto da levarlo più mai, prese seco le sue lettere e i dispacci che passando voleva deporre dal signor Sanneo, vi unì per compiacenza due lettere scritte da Alfonso e uscì canticchiando.

      Nella quiete assoluta il lavoro procedette più rapidamente. Non trovandoci altro più forte interesse, Alfonso, per legare l’attenzione al lavoro, usava quand’era solo di declamare ad alta voce la lettera, e quella si prestava alla declamazione essendo rimbombante di paroloni e di cifre enormi. Leggendo ad alta voce la frase e ripetendola nel trascriverla, scriveva con meno fatica perché bastava il ricordo del suono nell’orecchio per dirigere la penna.

      Si ritrovò con sorpresa di aver finito e andò immediatamente da Sanneo temendo già di aver fatto tardi. Costui trattenne i dispacci e gli ordinò di porre le lettere sul tavolo del signor Maller.

      D’inverno il pavimento della stanza del signor Maller era coperto di tappeti grigi. Anche i mobili avevano un colore oscuro grigio, e i bracciali e le gambe, di legno nero. Dei tre beccucci a gas uno solo era acceso e semichiuso. Nell’oscurità la stanza diveniva più seria. Alfonso vi stava sempre a disagio. Depose le lettere su un altro pacco che c’era sul tavolo per la firma e uscì con cautela senza far rumore come se il principale fosse stato presente.

      Avrebbe ora potuto andarsene, ma una grande stanchezza lo fece rimanere. Si propose di fare ordine sul suo tavolo ma rimase là inerte, seduto a sognare. Dacché era impiegato, il suo ricco organismo, che non aveva più lo sfogo della fatica di braccia e di gambe da campagnolo, e che non ne trovava sufficiente nel misero lavorio intellettuale dell’impiegato, si contentava facendo fabbricare dal cervello dei mondi intieri. Centro dei suoi sogni era lui stesso, padrone di sé, ricco, felice. Aveva delle ambizioni di cui consapevole a pieno non era che quando sognava. Non gli bastava fare di sé una persona sovranamente intelligente e ricca. Mutava il padre, non facendolo risuscitare, in un nobile e ricco che per amore aveva sposato la madre, la quale anche nel sogno lasciava quale era, tanto le voleva bene. Il padre aveva quasi del tutto dimenticato e ne approfittava per procurarsi per mezzo suo il sangue turchino di cui il suo sogno abbisognava. Con questo sangue nelle vene e con quelle ricchezze si imbatteva in Maller, in Sanneo, in Cellani; naturalmente le parti del tutto invertite. Non era più lui il timido, erano costoro! Ma egli li trattava con dolcezza, davvero nobilmente, non come essi trattavano lui.

      Santo lo avvertì che il signor Maller chiedeva di lui. Sorpreso ed anche alquanto allarmato, Alfonso ritornò nella stanza ove era stato poco prima. Ora era completamente illuminata; la luce densa faceva brillare la testa nuda del principale e la sua barba rossa.

      Era seduto e poggiato con ambedue le mani sul tavolo.

      — Ho piacere di vedere ch’ella è ancora qui; ciò mi dà prova della sua diligenza, della quale del resto non avevo mai dubitato.

      Alfonso, rammentando la sfuriata ricevuta poco prima da Sanneo, lo guardò temendo che parlasse ironicamente, ma la faccia rosea del principale era atteggiata a serietà; gli occhi azzurri guardavano il canto più lontano del tavolo.

      — Grazie! — mormorò Alfonso.

      — Mi obbligherà venendo da me domani a sera a prendere il tè.

      — Grazie! — ripeté Alfonso.

      Tutt’ad un tratto Maller, quasi avesse penato risolversi, parlò con meno noncuranza e guardandolo:

      — Perché fa disperare sua madre scrivendole che è malcontento di me e io di lei? Non si sorprenda! Lo so da una lettera scritta da sua madre alla signorina. La buona signora si lagna di me, ma di lei anche e non poco. Legga per accertarsene!

      Gli porse una carta che Alfonso riconobbe derivante dalla bottega del Creglingi. Vi gettò un’occhiata ed erano proprio i cari caratteri della madre. Arrossì; si vergognava di quella brutta scrittura e di quel brutto stile. C’era in lui qualche cosa di offeso per quella lettera resa pubblica.

      — Ora ho mutato di opinione... — balbettò, — sono contento! Sa... la lontananza... la nostalgia...

      — Capisco, capisco! ma via, siamo uomini! — e ripeté più volte questa frase. Poi di tutto cuore assicurò ad Alfonso che in ufficio gli si voleva bene e che cominciando da lui e dal signor Cellani, il procuratore, fino al capo corrispondente, il signor Sanneo, tutti desideravano di vederlo progredire rapidamente. Congedandolo ripeté: — Siamo uomini — e lo salutò con un cenno amichevole; Alfonso uscì tutto confuso.

      Dovette

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