La conquista di Roma. Matilde Serao

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La conquista di Roma - Matilde  Serao

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egli la sentiva, Roma: la vedeva, come una colossale ombra umana, tendergli le immense braccia materne, per chiuderselo al seno, in un abbraccio potente, come quello che Anteo riceveva dalla terra, e ne usciva ringagliardito: gli pareva di udire, nella notte, la soavità irresistibile di una voce femminile che pronunziasse il suo nome, ogni tanto, dandogli un brivido di voluttà. La città lo aspettava, da un pezzo, come un figlio amato e lontano; e lo magnetizzava col desiderio della madre, profondo, che evoca il figliuolo.

      Da tempo egli sentiva questa seduzione di amore, questo appello di amore, intorno a sè: si rodeva d'impazienza, fermo al suo posto, avvinghiato da mille difficoltà materiali e morali, non potendo sciogliersi, con un tormento inferiore che gli faceva pallido il viso e torbido l'occhio. Quante volte, da terrazzino coperto, ad arcate, della sua casa, nel suo paese di Basilicata, egli aveva guardato l'orizzonte chiarissimo dietro la collina, pensando che dietro quell'arco di cielo che si piegava, grandioso, era Roma che lo aspettava! Come i fedeli e pietosi amatori che hanno la loro donna lontana, e si struggono nel desiderio di raggiungerla, egli considerava malinconicamente tutta la distanza che lo separava da Roma, e come, nell'amore contrastato, fra lui e la sua donna si frapponevano uomini, cose, avvenimenti. Di che odio profondo, segreto, tutto concentrato nel suo cuore, egli detestava tutti coloro che si mettevano fra lui e la città che lo chiamava! Come gli amatori, nel mondo intero, egli non aveva che la visione deliziosa della persona che egli amava, che lo amava: tutte queste ombre nere che si interrompevano fra lui e la lucentezza del suo sogno, gli davano lo spasimo. Un'amarezza gl'inondava le vene: nel suo spirito era un grande serbatoio di rancori, di collere, di disprezzi, di desiderii, come in quello degli amatori.

      Dieci anni di battaglie, tenendo Roma nel cuore, lo avevano trasformato. Una diffidenza, nascosta degli altri e una soverchia stima di sè: un raccoglimento continuo, talvolta dannoso; uno studio incessante di freddezza, mentre, dentro, l'anima gli ribolliva; un disprezzo profondo di tutte le altre forze umane, che non fossero l'ambizione; uno squilibrio crescente fra il desiderio e la realtà; segreta, ma acutissima la conseguente delusione; l'amore del successo, niente altro che il successo. Questo era accaduto, nella oscurità della sua coscienza; ma talvolta, nelle ore bieche della disfatta, egli si abbatteva in una debolezza infinita; una umiliazione soverchiava tutto il suo orgoglio, egli si sentiva un povero essere, limitato, miserrimo. Come gli amatori, quando li sopravvince la cattiva fortuna, egli si sentiva indegno di Roma. Oh! bisognava domarsi nella pazienza, rafforzarsi nella perseveranza, temprarsi le forze nell'avversità, purificarsi lo spirito nel fuoco consumatore, come un penitente antico, per essere degno di Roma. Figura ieratica di sacerdotessa, di madre, di amante, Roma vuole espiazioni e sacrifici, vuole un cuore puro e una volontà di ferro...

      — Ceprano, Ceprano, dieci minuti di fermata, — si gridò fuori.

      L'onorevole Francesco Sangiorgio si guardava attorno, ascoltava, come un trasognato: egli aveva la febbre.

       Prima una sbarra di un verdino pallidissimo, che saliva, parallela, all'orizzonte: poi un chiarore livido, freddo, di cui sembrava potersi vedere la lentissima dilatazione sull'alto del cielo. In quella glacialità di notte spirante, la campagna romana si apriva, vastissima. Dallo sportello presso cui stava ritto, Francesco Sangiorgio la guardava. Era un'ampiezza di pianura il cui colore ancora non si scorgeva, ma che, qua e là ondulava, come le dune d'un mare poco lontano; e la penombra fitta, con quella scialba irradiazione che ancora non arrivava a vincerla, dava alla campagna romana uno sconfinamento di deserto. Non un albero: solo, di tratto in tratto, una siepe alta e fitta, nera, che pareva facesse una riverenza circolare e fuggisse.

      Le stazioni cominciavano ad apparire bigie, tutte umide ancora della brina notturna, con le finestre sbarrate e le persiane verdi che avevano presa una tinta rugginosa, i magri alberetti di oleandri coi rami pendenti e i fiori tutti stillanti, pioventi al suolo, come se piangessero; con l'orologio dal largo disco biancastro che macchie di umidità deturpavano, e le cui brune lancette, dalla testa grossa, sembravano un ragno nero, a due gambe. Il capo-stazione, tutto imbacuccato nel pastrano, con una sciarpa che gli fasciava le mascelle, andava e veniva, tra i facchini, col capo abbassato: e nella freddissima aria mattinale, un sottile odore di terra bagnata, odore acre, feriva il cervello. Un grosso paese, eretto sopra una collina, fortificato da un giro di mura e da due torri, comparve, tutto bigio, tutto vecchio, con un'aria medievale: era Velletri.

      Ora, nel treno avveniva un certo risveglio; nel vagone accanto si sentiva scricchiolare il pavimento, due persone parlavano. Da uno sportello di prima classe, la testa d'un prete spagnuolo, molto bruno, dalle guance dure e rase, che avevano un'ombra azzurrina, si sporgeva, fumando alacremente un sigaro. Ma come l'alba s'irradiava in tutto il cielo, bianchissima, gelata, tutta la nudità della campagna romana apparve, nella sua grandezza. Su quei prati a perdita di vista, smarriti in una luce mite, un'erba rada e piccola cresceva, di un verde tutto molle di acquitrino; qua e là grandi appezzamenti giallastri, macchiati di marrone, una terra grossa e rude, pietrosa, fangosa, incoltivabile. Era un imperial deserto che nessun albero allietava, che nessuna ombra d'uomo animava, che non attraversava alcun volo d'uccelli; era una desolazione immensa, solenne.

      Contemplando questo paesaggio, che a nulla rassomiglia, Francesco Sangiorgio era preso da un senso crescente di sorpresa, in cui tutti i suoi sogni personali si dileguavano. Stava a guardare, muto, immobile, rannicchiato nell'angolo della carrozza, tremando di freddo, sentendo calmarsi il battito delle tempie. Indi a poco una pesantezza gli scendeva sulle palpebre, un rilassamento gli distendeva tutta la persona, egli provava tutta la stanchezza della notte trascorsa vegliando. Avrebbe voluto sdraiarsi nella carrozza, con un bel raggio di sole, che entrasse dal finestrino aperto, per dormire, una buona ora, sino a Roma; invidiava quelli che avevano passato quelle lunghe ore notturne a ristorarsi le forze, nel riposo.

      Ora il viaggio gli sembrava interminabilmente lungo, e lo spettacolo della campagna romana, quello squallore maestoso, l'opprimeva. Non finiva dunque mai? Non sarebbe dunque mai a Roma? Aveva sonno: un intorpidimento gli si dilatava dalla nuca a tutte le membra, la sua bocca era pastosa e amara, come se uscisse da una malattia; e la sua impazienza diventava pena, un piccolo tormento; egli si lamentava con se stesso, come se gli facessero un'ingiustizia. I treni notturni erano troppo lenti; aveva fatto male a partire con quello, fidando di poter dormire, nella notte; questa ultima ora gli era insopportabile. La realtà de' suoi sogni gli era dappresso, vicinissima, e con la sua vicinanza gli dava una palpitazione di gioia. Sentiva l'appressarsi di Roma, come quello di una donna amata: cercava di esser calmo, vergognandosi innanzi a sè stesso: ma gli ultimi venti minuti furono un vero spasimo. Col capo fuori del finestrino, ricevendo in faccia il fumo umido del vapore, senza più guardare la campagna, senza un'occhiata per gli eleganti acquedotti che si prolungavano nella pianura, egli guardava verso la mèta, credendo e temendo ad ogni tratto di veder apparire Roma, compreso da un vago senso di terrore. Spariva la campagna, dietro, come se si inabissasse, portando con sè i prati umidi, gli acquedotti giallastri e le bianche casette cantoniere. La macchina pareva accrescesse la sua velocità, e ogni tanto dava in un fischio lungo lungo, stridulo, a due, a tre riprese. A quasi tutti i finestrini vi erano delle teste sporgenti.

      Dov'era Roma, dunque? Nulla si vedeva. E la inquietudine era così forte, che quando il treno cominciò a rallentare, l'onorevole Francesco Sangiorgio ricadde sul sedile: il cuore gli batteva sotto la gola, come se gli si fosse allargato per tutto il petto. Passando sul pavimento ferreo degli scambi, quelle scosse forti gli si ripercuotevano dentro, gli davano sul capo come tanti colpi di martello. Gl'impiegati non dicevano neppure: Roma. Ma egli, scendendo, fu preso da un lieve tremito nelle gambe; la folla lo circondava, lo urtava, lo spingeva, senza badare a lui: in due correnti, per i treni che arrivavano, in coincidenza, da Napoli e da Firenze. L'onorevole Sangiorgio era smarrito tra la gente, addossato al muro, come se non si reggesse, avendo ai piedi la sua valigetta; e con l'occhio vagante guardava tra la folla, come se vi cercasse qualcuno.

      La stazione era ancora tutta umida, un po' scura, con quel nauseante puzzo di carbon fossile, di olio, di ferro sfregato, che vi è sempre, piena di vagoni neri, di grandi casse d'imballaggio ammonticchiate; e le faccie erano tutte stanche,

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