La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII. Francesco Domenico Guerrazzi

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La battaglia di Benevento: Storia del secolo XIII - Francesco Domenico Guerrazzi

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una pena orribile la turba, le avvelena la vita un secreto tormento, cui ella non può nè allontanare, nè conoscere, perchè Dio si mostra misterioso nei suoi stessi tormenti. Chiamasi pietà questa di ragunare tutte le procelle dell'inverno per atterrare un fioretto, testè apparso sul prato?¹ Tua è questa carne,—quest'anima, tua: ma creasti tu forse per godere l'atroce diritto di distruggere?—Toglitela se ti piace, ma deh! non provarla con tanto dura battaglia… Elena! sciagurata Regina! tu hai ardito mormorare dell'Eterno…—Io?—Signore, le mie pene sono ben grandi… perdonatemi. L'angoscia accieca la mente: perdonate ad una madre, che lietamente darebbe in questo punto la vita, anzichè piangere sul sepolcro dei proprii figliuoli.»

      ¹ Dicam Deo……. Numquid bonum tibi videtur si calumnieris me, et opprimas me opus manuum tuarum? (Job, c. 40)

      In questo Gismonda a mani curve, a guisa di tazza, giungeva dalla fontana; ma la fretta fece sì, che appena poche stille di acqua vi si conservassero: queste nondimeno, spruzzate sul volto di Yole, ebbero virtù di ritornarla alla vita. Apriva la vergine languidamente gli sguardi, e tratto un gemito domandò: «Dove sono?»

      «Nel grembo di tua madre.»

      «Oh! non ne fossi mai uscita.»

      «Che? Respingi il grembo che ti ha portato… il seno che ti diè il latte? Santa Maria! anche a questo era riserbata la Regina Elena?… Ah! le mie ambasce si fanno maggiori della mia pazienza.»—Così dicendo lasciava di sostenere la figlia, e, lacrimando disperatamente, cadeva.

      «Gismonda!» disse allora Yole a questa damigella, che sola era rimasta a sorreggerla, «perchè mi ha lasciato mia madre? Le sono forse divenute troppo gravoso incarico le membra di sua figlia? Ah! io incresco a tutti, e a me stessa….—Chi è che piange? Gismonda, dimmi, chi piange?»

      «La madre vostra.»

      «Perchè?»

      «Voi avete desiderato di non averla avuta per madre.»

      «Io ho detto questo?… Io!» esclamò Yole: e il rimorso dell'anima gentile le ricondusse su le guance i colori del pudore. «Sciagurata! Oh! l'ottima delle madri, non vogliate piangere a quelle cose che ho detto, ma piangete piuttosto per quello spirito che mi costringe a dirle.—Certo, il mio cuore non vi assente…. ma una forza feroce mi agita l'ossa, e il sangue. Io vi amo, madre mia, vi amo di quell'amore stesso che voi amate me:—prescrivete; ogni qualunque prova, e sia pure quanto si voglia dolorosa, incontrerò lieta per amore vostro. Io non vi offro la vita, che il togliermela sarebbe il più grande benefizio, che il cielo e gli uomini mi potessero fare; ma cessate di piangere per cagion mia…. cessate, od io muoio di affanno ai vostri piedi.»

      «Io sono lieta, Yole,» disse la Regina, abbracciando la figlia, ed amorosa baciandola; «ma tu, via, cessa di darmi tanta afflizione. Parla…. dimmi: qual cosa mai tanto duramente ti molesta?—Qui nel mio cuore deponi il tuo segreto…. nel cuore di tua madre, che darebbe la vita per vederti felice. La tua sorella lo è già: e quando te pure io vedrò così, il giorno della mia morte sarà il più avventuroso di tutta la mia vita.»

      «Gostanza» rispose Yole con accento solenne «è, e si manterrà lungamente felice. Al cielo piacque separare la causa della figlia di Beatrice di Savoia dalla causa della figlia di Elena di Epiro. Su me…. su noi pesa un atroce destino. Noi morremo illagrimati, giaceremo insepolti, monumento di pietà, d'invidia, e di ferocia. A che vi arrancate, madre mia, per ricercare nel mio spirito la cagione del dolore? Sollevate gli sguardi;—la causa della nostra disperazione scintilla nel cielo….»

      Elena sollevò gli sguardi all'orizzonte, e vide, o le, parve vedere, la cometa scuotere minacciosa i suoi raggi. Non ne sostenne l'aspetto, ma riabbassata la faccia passò il suo braccio in quello di Yole, e mestamente silenziosa prese a incamminarsi verso il castello. Le seguitava Gismonda, mormorando a bassa voce una preghiera per la pace allo spirito travagliato delle sue dilette signore.

       Indice

      OFFESA.

      Che temi, animo mio, che pur paventi?

       Accogli ogni tua forza alla vendetta,

       E cosa fa sì inusitata, e nuova,

       Che questa etade l'abborrisca, e l'altra

       Che venir dee creder la possa appena…

       Sono innocenti i figli? Sieno,—sono

       Figli di traditore.

       ORBECCHE, tragedia antica.

      Nella parte occidentale del castello del Conte di Caserta era una cameretta remota nella quale nessuno, per quanto fosse ardito, osava di penetrare. I servi, allorchè nella notte faceva bisogno per alcuna faccenda passarvi vicino, commettevano alla sorte la scelta di quello che doveva andare; nè questi apprendeva mai il suo nome senza impallidire; e sebbene si raccomandasse al suo Santo protettore, e si munisse col segno santissimo della fede, pur tuttavia s'incamminava sempre tutto pauroso, senza volgere la testa, a passi accelerati, mormorando un esorcismo. Ciò non accadeva senza forte motivo, imperciocchè la tradizione portasse che quivi fosse stato commesso un molto terribile delitto; e sovente vi udivano pianti, gemiti, ed urla disperate. V'era perfino qualcheduno della famiglia che giurava su l'Evangelo aver veduto uno spettro di donna con un pugnale nel seno, dal quale sgorgava un vivissimo sangue, farglisi incontro, e dimandarla con voce lamentevole: «Il mio figlio? Il mio figlio?» Insomma, al naturale orrore del luogo si aggiungevano le fantastiche paure di menti superstiziose e ignoranti.

      Questa camera appariva internamente poco più lunga di dieci passi, altrettanti alta, e larga; perfettamente cubica. Le pareti, il soffitto, il solaio, tutti coperti di nero. In essa non occorrevano suppellettili di sorta alcuna, nè sedie, nè tavola, o che altro; solo una lampada involta dentro velo nero, appesa al soffitto, tristamente la illuminava. Traccia di balcone nessuna. Nella parete volta a mezzogiorno si vedeva un tabernacolo simile in tutto a quelli che, con troppo generale denominazione, soglionsi oggi giorno chiamare gotici, e questo pur nero, quantunque se di marmo o di legno non abbia conservato la cronaca. Ma se di tabernacolo gotico aveva la tavola, sporgente dal muro, sostenuta da beccatelli traforati a fogliami, le colonne a spirale contro ogni regola di architettura soverchiamente sottili, e frontone protratto in angolo acuto, frastagliato di ornati, senz'altro sodo o cornice posato sui capitelli delle colonne, non aveva però in sè Santo, o Madonna, siccome nei tabernacoli gotici anche oggidì osserviamo. L'aspetto di questa camera faceva supporla destinata ad uffizio di Oratorio, benchè non si discernesse a cui fosse consacrata.

      Lì presso al tabernacolo stava immobile un uomo di persona più alta della comune; vestiva cappa di panno oscuro, cinta strettamente alla vita. Il suo sembiante…… oh! il suo sembiante era tale, che chi lo mirava per nessuna altra cosa sapeva più supplicare l'Eterno, se non per ottenere dalla sua pietà la dimenticanza di cotesto volto. La sensazione che agitava la gente alla sua vista non può ridirsi che per via di paragone, assomigliandola a quella che suscita nel cuor dell'uomo sospeso sopra lo abisso delle acque l'urlo salvatico del mostro marino. I colori della malattia e della paura gli stavano su la fronte: le guance aveva emaciate, il labbro tumido, e acceso. Nessuna scintilla, che accennasse la vita, balenava nei suoi occhi incavati, coperti di un velo, intenti, ghiacciati. Angeli del Paradiso! Parevano quelli di un Vampiro.¹ La sua immobilità, e le membra abbandonate a sè stesse, facevano riputarlo un morto, così fissato in piedi lungo la parete per indurre a penitenza con tanto spaventoso spettacolo chiunque si fosse vôlto

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