Alle porte d'Italia. Edmondo De Amicis
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La vita intellettuale di Pinerolo, insomma, consiste in gran parte nel commentare i fatti e le gesta di quei signori, dei merles, come li chiama benignamente il Governatore; tanto più dopo che è finito il divertimento di veder lavorare alle fortificazioni, che furon rifatte con grandi spese in seguito alla visita che ci venne a fare segretamente il Vauban, anni sono, in compagnia, credo, dell'onnipotente Louvois. Le famiglie pinerolesi si mescolan poco con gli ufficiali del presidio. C'è un po' di passeggiata la sera in piazza San Donato; ma non ci va quasi nessuno, perchè danno ai nervi quei grandi baffi impertinenti dei soldati della compagnia d'onore, che fan la guardia al palazzo del Governatorato, e le famiglie dei commissari e degli altri impiegati francesi che fanno dei nastri per la piazza col naso per aria, dicendo corna della città (une tanière) ad alta voce. Gli ufficiali della cittadella, alloggiati nel loro vasto gabbione, non scendon quasi mai; il Saint-Mars se li tiene a portata della mano per timore che quei di sotto glieli corrompano. E infatti, non si dà mai il caso che mandino a prendere o ad accompagnar fuori un prigioniero dai soldati e dai sergenti del presidio, da tanto che se ne fidano! Non ce n'è uno — è scappato detto allo stesso governatore, — che mandato fuor delle mura, non pianterebbe il prigioniero in mezzo ai campi per disertare. Così è fedele l'esercito del gran Re! Per conseguenza, quando la città non è scossa dall'arrivo d'un ufficiale dei moschettieri, nelle ore in cui le truppe riposano, dopo mezzogiorno, Pinerolo ha tutta l'aria di una necropoli. Fra le alte caserme e i grandi conventi silenziosi, dalla porta di Torino alla porta di Francia, non si vede passare che qualche cappuccino o qualche penitente della Concezione, e non si sentono che i rumori cupi della Fonderia e dell'Arsenale, che lavorano ai nostri danni. Si direbbe che quel maledetto castellaccio, con quei cinque ricettacoli di dolori, che si alza come una gigantesca macchina di tortura a contaminare l'azzurro, e si vede da tutte le parti della città e da tutti gli angoli dei bastioni, getti per le vie e nelle piazze l'uggia dei suoi cortili grigi e la tristezza delle sue celle nefande. O piuttosto, non è il castellaccio. È quella faccia malaugurosa del Saint-Mars che si vede spuntar a tutte le cantonate e a tutte le finestre. È lui che empie la città del suo umor nero di birro sospettoso, e che batte la misura alla vita di Pinerolo con lo stridor cadenzato dei suoi chiavistelli. Lo stesso governatore d'Herleville ne sente l'influsso funereo, e scappa a Torino ogni volta che può, con la sua graziosa marchesa; — un amore; — la sola cosa bella ch'io abbia trovato finora nella dominazione francese.
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Oh splendido e caro passato, già tanto lontano! Ci pensi mai, tu, amico Toggia? Dire che siamo stati la città capitale del Piemonte per il corso di più d'un secolo, accarezzati, colmati di privilegi; che qua i nostri principi nascevano e venivan sepolti; che fra noi si festeggiavano re e imperatrici; che contavamo una popolazione di grande città, con quattordicimila operai, con una brava milizia nostra, che le mura turrite si estendevan per varie miglia da monte Oliveto oltre all'Abbadia, che mandavamo le nostre lane fino in Oriente, che accoglievamo gli ambasciatori di Napoli, di Milano, di Venezia, di Ungheria, di Vienna, del Papa, i deputati di tutte le città del Piemonte, i cortei dei marchesi di Saluzzo e di Monferrato, e le visite festose dei conti di Savoia, e i ritorni trionfali dei principi d'Acaja, e che su per queste vie salivano a cavallo le belle spose bionde vestite di broccato d'oro, sotto i baldacchini di raso bianco, in mezzo ai baroni vassalli scintillanti di ferro e ai signori del Consiglio vestiti di mantelline purpuree, sopra un terreno coperto di mirti e di rose! Ed ora abbiamo il Saint-Mars. Io l'ho col Saint-Mars. Che rotolone, ingiusto cielo!
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Se voglio vivere, caro mio, non bisogna ch'io pensi che questo dura da quarantaquattr'anni. Dall'anno in cui son nato, nè più nè meno; poichè io venni al mondo qui nell'anno medesimo che quel baccellone del conte di Scalenghe, dopo due giorni di tremarella, cedeva Pinerolo al cardinale Richelieu, facendo abbassare le armi a quattrocento Vallesiani e a trecento uomini di milizia che avrebber potuto salvare il Piemonte. Ah se risuscitasse Emanuele Filiberto, brava anima sua! — Il re ha bisogno di tenere un piede di qua dalle Alpi, — bada a ripetermi questo squassapennacchi del luogotenente Rivière. Ebbene, ci vorrebbe un duca di Savoia che rispondesse al re, come rispose quel lestofante: — Son d'accordo, purchè quel piede sia io. — Ma che possiamo sperare da Carlo Emanuele II, che si lascia pestare i calli ogni giorno dagli ambasciatori di Francia per il posto al banchetto o per il palco al teatro? Egli tira ai dominii di Ginevra, del Vaud, di Friburgo, di Losanna, limosina dei pezzi di terra a tutte le Corti di Europa, manda dei reggimenti a lasciar le ossa per il Re nelle Fiandre, attacca lite con Genova per far quella bella figura che sappiamo, s'intesta di bucare il colle di Tenda; e non pensa a liberar Pinerolo, che è il morso col quale la Francia terrà sempre Casa Savoia in sua balìa. Facesse almeno dei bei versi come suo nonno! Oramai noi non speriamo più che in una specie di diluvio universale, in una vastissima e terribile guerra che metta sottosopra l'Europa, sconquassando questa mostruosa baracca dorata della Monarchia francese. Comunque debba finir la cosa, peraltro, possiamo esser certi che le prime batoste, ossia le bombe, le mine, le devastazioni e la fame, saranno per noi. È stato sempre il nostro destino. Abbiamo l'onore di esser la chiave della valle del Chisone, una delle porte d'Italia; e tu vedi dove ce l'han confitta, questa chiave. Povera Pinerolo! Dalla seconda guerra punica in poi, chi abitò da queste parti non ebbe mai dieci anni di santa pace. Romani e Cartaginesi, Galli e Saraceni, Goti e Ostrogoti, Longobardi e Svizzeri, Tedeschi, Spagnuoli, Francesi e Valdesi e marchesi e anticristi si sono scatenati sui nostri quattro campi e sui nostri quattro sassi come se questo fosse un circo stato fatto apposta da domenedio perchè tutti i popoli della terra vi si venissero a pestar la cappa del cranio. Per tutto dove si scava, vengon fuori stinchi, caschi rotti e dagacce arrugginite. Che spettacolo, perdio, se saltassero su vivi per i campi e per i colli tutti i soldati che li calpestarono in venti secoli, dai numidi di Annibale agli alabardieri di Francesco I! Sarebbe la benedetta volta che vedremmo il Saint-Mars, spaventato e senza parrucca, precipitarsi dalla Torre del Diavolo nel fossato della cittadella.
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Ciò non ostante, come t'ho già detto, io trovo modo di vivere serenamente, grazie alle molte faccende e alla molta lettura. La mia più bella ricreazione è una passeggiata che faccio ogni sera, verso il tramonto, con le poesie del Chiabrera tra le mani; un esemplare prezioso, annotato nei margini, che fu regalato dal poeta stesso al marchese di Caluso, quando fu alla corte del primo Carlo Emanuele. Me ne parto di vicino alla Polveriera, dove sto di casa, attraverso la città bassa; risalgo lento lento per i bastioni di Villeroy e di Richelieu, svolto dal bastione della Corte, e vado a fare, regolarmente, una piccola visita al castello dei nostri principi. Che cosa vuoi? Quel povero castello, unico avanzo delle nostre glorie, imprigionato là fra le casipole, coi suoi merli cadenti e le sue porte sbarrate, che par compreso dal sentimento della sua miseria, mi mette pietà e tenerezza insieme! Il suo silenzio triste mi fa ripensare alle feste e agli amori che lo animarono un tempo, alle ambizioni smisurate che si spennaron le ali fra le sue mura come aquile prigioniere, alle belle principesse d'Acaja che vi folleggiarono, vi piansero e vi morirono. Dopo un quarto d'ora che son là, mi par di sentire i passi concitati dell'altera Isabella di Villehardouin che ridomanda il suo principato perduto; vedo Caterina di Vienna, coi suoi grandi occhi celesti rivolti alle vette bianche dei monti; la sventurata Sibilla del Balzo, che spira benedicendo il suo povero Filippo, predestinato al lago d'Avigliana; e quel bel demonio biondo di Margherita di Beaujeu che susurra all'orecchio di Giacomo le parole che sconvolgono la ragione, e Caterina di Ginevra con la sua vita sottile di vergine e il suo adorabile neo sulla guancia, e Bona di Savoia che smorza sotto alle lunghe palpebre la fiamma de' suoi occhi pieni d'amore. Oh se s'affacciassero tutte insieme a quelle finestre arcate e vedessero sventolare sulla cittadella la bandiera di Versailles, come