Ritratti letterari. Edmondo De Amicis

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Ritratti letterari - Edmondo De Amicis

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che sembra sbocciata dalla fantasia del Lamartine, e la famiglia di Joyeuse, che par tagliata netta da un romanzo di Carlo Dickens, e la virtù tutta di un pezzo della regina d'Illiria, e il fratello Jacques, d'una bontà più che umana; creature che non possono quasi comprendersi nemmeno in quella realtà poetica fino alla quale spinge le sue concessioni lo Zola. Ma che importa? Quel che ci perde in rigore il verismo, lo guadagna lui in simpatia. In tutti i suoi romanzi, ed anche nei più brevi suoi racconti, si sente ad ogni pagina il profumo d'un'anima nobile e gentile, che serba la sua bella serenità anche nella pittura dei più orrendi vizi, che sente la bellezza fin nelle più intime fibre, che vibra potentemente per ogni idea grande e per ogni grande affetto; aperta e limpida, piena di pietà per tutti i dolori, dominata da un sentimento netto e profondo del bene e del male, dotata d'un senso comico originale e simpatico che non si esprime nella risata plebea, ma in un sorriso fine e grazioso, e canzona amabilmente, senza schernire, in modo che ogni anima più delicata può sempre farvi eco, sicuro che non riderà mai di nulla di triste e di rispettabile. E il Daudet è giovane; forse salirà ancora per molti anni. C'è un pericolo non di meno: che per mantenersi il favore grande che s'è acquistato, egli sforzi il suo ingegno e lo pieghi alla curiosità e al gusto falso del pubblico, sia proseguendo la serie dei così detti romanzi â allusions, come i suoi ultimi due, che è la via più sicura per riuscire a grandi successi librarii a scapito dell'arte; sia spingendo anche più oltre quell'efflorescenza già soverchia di stile, che si nota principalmente nei Rois en exil, e che i critici di gusto lamentano, ricordando la bella semplicità efficace dei suoi scritti anteriori. È da sperarsi che sì arresti su questa china. Frattanto egli appartiene a quella famiglia di scrittori, a cui è difficile assegnare un grado nella gerarchia degli ingegni, perchè la simpatia che ispirano confonde gli argomenti del giudizio letterario. Ci sono ingegni grandi che preferiamo ai grandissimi, come edifizi gentili a enormi palazzi di granito. Perchè voler mettere ad ogni costo, anche su di loro, il numero d'ordine? Il meglio è lasciarli in disparte, dove si trovano; e questa necessità in cui ci mettono di ammirarli in una specie di solitudine, è forse il loro più bel titolo di gloria. Il Daudet è uno scrittore nato, di quelli, come dice il Foscolo, che hanno l'arte nei muscoli e nel midollo delle ossa, e la cui potenza risiede in qualche cosa di intimo che sfugge all'analisi. Fare i pedanti sull'arte sua, ripugnerebbe, come il criticare la forma di un fiore o le sfumature d'un'aurora. E in questa manìa universale di «uccider l'arte per vedere com'è fatta» è grato l'incontrare uno scrittore come il Daudet, che abbarbaglia e trascina, e fa piangere e ridere, e ci si pianta nel cuore, senza lasciarci tempo e modo di tormentar lui e noi coi ferri della critica, che tagliano anche dal manico. Noi pigliamo il Daudet com'è, con le sue deficienze e coi suoi difetti, ad occhi chiusi, facendogli festa amorosamente, come a un fratello glorioso. Un critico francese disse tempo fa che bisogna contentarsi del Daudet perchè non abbiamo dei genii. — E noi ce ne contentiamo — infinitamente.

       * * *

      Il Daudet, come la più parte degli scrittori celebri di Parigi, vive molto a sè: non va tra la gente che per studiare, perchè è uno di quegli artisti che si reggono più sopra l'osservazione che sopra l'immaginazione; ed è difficile arrivare a lui, non perchè faccia l'inaccessibile, ma perchè tra il teatro e il Moniteur e i romanzi e gli amici e le mosche, ha quasi sempre la giornata presa. È come pigliare un biglietto per il Nouvel-Opéra, nelle grandi occasioni: bisogna pensarci una settimana prima. Sta al quarto piano, malgrado le ottanta edizioni del Nabab, in un quartierino che guarda sui giardini del Lussemburgo, famosi per convegni d'amanti; piccolo, ma pieno di luce e allegro, un vero nido di rondini, da cui si sentono appena i rumori della strada, che son rari. Non si può immaginare una casa di scrittore che corrisponda meglio alla natura dell'ingegno e dell'animo, ed anche alla persona del padrone. C'è tutta la varietà e la grazia d'ornamenti e di colori del suo stile, e la morbidezza della sua indole. Son due stanzine raccolte, quelle che io vidi, piene di fiori, di piccoli bronzi, d'oggettini giapponesi e d'acquerelli, che sul primo momento confondon la vista, come certe sue pagine fosforescenti: i divani e i seggioloni coperti di antiche stoffe a ricami argentati, i libri luccicanti di dorature: tutto nitido, piccolo e grazioso. L'amico che m'accompagnava mi disse nell'orecchio, accennando intorno: — Ci si vede la mano della donna. — E infatti non solamente l'aspetto della casa, ma qualcosa d'indefinibile che è nella persona e nei modi del Daudet fa indovinare la donna non solo, ma l'amore. Sono gradevolissimi quei pochi momenti che si passano nella casa d'uno scrittore ammirato e simpatico, aspettando la sua apparizione. Ogni più piccolo oggetto par che contenga la rivelazione d'un segreto del suo ingegno e del suo cuore, e si vorrebbe scoprire un legame tra il capriccio che gli fece scegliere i ninnoli del salotto e il gusto che lo guida nella scelta dell'immagine e della frase potente. Si vorrebbe frugare per tutto e fiutare ogni cosa. Il visitatore piglia l'aspetto d'un ladro domestico che cerchi intorno su che cosa ha da fare il suo colpo. Mentre appunto stavo facendo il ladro, si sentì nell'altra stanza una voce sonora e dolce, si spalancò una porta con impeto, e comparve Alfonso Daudet.

       * * *

      Non credo che la più appassionata delle lettrici del Nabab si sia mai rappresentata, pensando al Daudet, una figura più bella e più simpatica della sua figura reale. Di statura media, di proporzioni giuste, sottile per i suoi trentott'anni, ha una testa che potrebbe servire di modello per un Cristo a un pittore idealista: una grande capigliatura nera ondulata che gli fa ombra alla fronte; gli occhi neri, d'una lucentezza e d'una fissità strana, che guardano con una espressione dolcissima; il viso, perfettamente ovale, d'un color bruno pallido; la bocca piccola e benevola, la barba alla nazarena, e un naso aquilino della più bella arcatura che possa immaginare un pittore. Non posso assicurare che sia il più bel naso della Francia, come m'ha detto uno dei suoi ammiratori entusiastici; ma veramente, non mi ricordo d'aver mai visto un profilo di volto più puro e più nobile di quello del Daudet. Ha delle mani di donna, un sorriso giovanile che gli rischiara tutto il viso, e una voce armoniosa, pastosa, agile, abbellita da un tremito leggerissimo, che par che venga dal profondo del cuore, e dà un'efficacia indicibile alle sue parole, quando egli s'esalta nell'espressione d'un bel sentimento. Oltre a questo, un modo di muoversi e di discorrere, pieno di vivacità e di naturalezza, da buon giovanotto; un fare da pittore allegro e cordiale, sorpreso in giacchetta in mezzo al disordine dello studio; e una certa trascuratezza artistica nel suo vestimento nero, che s'addice benissimo alla graziosa mobilità della sua figura signorile. A chi non la conoscesse, parrebbe piuttosto un italiano o un castigliano, che un francese. La sua stessa pronunzia non è così serrata e arrotata come quella dei parigini, quantunque tradisca appena il provenzale; e la sua voce ha un metallo particolare, un colore musicale, come dicono là, rarissimo a trovarsi a Parigi. Ora chi ha davanti agli occhi la figura nobilissima del Daudet, immagini la strana impressione che mi fece, appena fummo seduti intorno al caminetto del suo studio, vedergli tirar fuori dal taschino della sottoveste e mettersi in bocca, con un atto voluttuoso di vecchio fumatore, una miserabile pipetta di terra, uno scandaloso brûle-gueule da muratore, lungo un dito; e dar segno di viva soddisfazione quando gli si disse che era admirablement culottée.

      Era una pipa che gli aveva lasciata per memoria il povero Flaubert, gran fumatore, il quale si faceva fare delle pipe apposta a Rouen. Il Daudet (me ne dispiace) fuma come un ottomano, e quello che è peggio, è profondamente persuaso che il fumare non gli faccia danno; dice anzi che più fuma e più lavora, tanto che la sera misura il lavoro fatto dalla diminuzione del tabacco nella scatola. Secondo lui, ci sono dei temperamenti sui quali il tabacco è affatto innocuo. I suoi confratelli credono il contrario: Vittor Hugo, il Dumas, lo Zola non fumano; l'Augier ha smesso dopo un avvertimento terribile; il Girardin, anni sono, bandì la guerra al tabacco, come Urbano VIII; e credono i più che derivasse dall'abuso della pipa la penosa lentezza con cui lavorava il Flaubert negli ultimi anni.

      Il Daudet, però, è grande lavoratore, a dispetto della nicotina. Parlò a lungo della sua maniera di lavorare. Raccontò come fece a scrivere il Nabab. Pazzie! Otto mesi di lavoro furioso, diciotto ore al giorno a tavolino, tolti pochi minuti per mangiare; intere settimane senza metter piede fuor dell'uscio; una sola enorme fiatata dalla prima all'ultima pagina. Capiva bene che ci si finiva; ma

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