Le vergini delle rocce. Gabriele D'Annunzio
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Tali, in fatti, i padroni di quella Roma che sognatori e profeti, ebri dell'ardente esalazione di tanto latino sangue sparso, avevano assomigliata all'arco di Ulisse. — Bisogna curvarlo o morire. — Ma quegli stessi uomini, i quali da lungi erano apparsi fiamme nel cielo eroico della patria non ancor libera, ora diventavano “carboni sordidi, buoni soltanto a segnare su i muri una turpe figura o una parola sconcia„, secondo l'atroce imagine d'un rètore indignato. S'industriavano anch'essi a vendere, a barattare, a legiferare e a tender trappole, nessuno più facendo allusione all'arco micidiale. E non pareva probabile, in verità, che a spaventarli si levasse d'improvviso il grido: “O Proci, divoratori della sostanza altrui, badate, Ulisse è già approdato in Itaca!„
Ottimo consiglio era dunque il ritrarsi dallo spettacolo, per qualche tempo. E io partii con i miei cavalli e con le mie cose più familiari, senza commiati.
Avevo scelto per soggiorno Rebursa, la prediletta delle mie terre ereditarie, prediletta già da mio padre come da me: rifugio favorevole a un'anima valida, paese dalle vertebre di roccia, disegnato con rara sobrietà e gagliardìa di stile: che poteva accogliere e nutrire il sogno imperioso della mia ambizione come aveva accolto e nutrito l'altera tristezza di mio padre dopo la caduta del suo Re e dopo la morte di Colei che vivente era parsa la luce della nostra casa, il nostro più sicuro bene.
Anche, io aveva poco lungi di là — a Trigento — alcuni amici, non veduti da molti anni ma non obliati, a cui mi legavano grati ricordi della puerizia e dell'adolescenza. E il pensiero di rivederli mi rallegrava.
Vivevano a Trigento, nell'antico palazzo baronale circondato da un giardino quasi vasto come un parco, i Capece Montaga: famiglia tra le più illustri e magnifiche delle Due Sicilie, caduta in rovina nei dieci anni che seguirono la disgrazia del Re, quindi ritiratasi a vita oscura nell'ultimo dei suoi feudi, in fondo alla provincia silenziosa. Il vecchio principe di Castromitrano — che aveva goduto i supremi onori alla corte di Ferdinando e di Francesco, e che aveva seguito fedelmente l'esule a Roma e oltralpe senza mai rinunziare alle suntuosità del tempo felice — sognava da anni nell'ombra e da anni invano aspettava la Restaurazione, mentre la sua canizie precoce andavasi chinando sempre più verso il sepolcro e la sua figliuolanza andavasi disfacendo nel tedio inerte. Soltanto la demenza della principessa Aldoina turbava la lunga agonia gittandovi sopra a sprazzi lo splendore fantastico del Passato. E nulla poteva eguagliare in desolazione il contrasto tra la realtà miserevole e i pomposi fantasmi espressi dal cervello della demente.
Quella grande stirpe moribonda aggiungeva a quel paese di rocce una specie di funebre bellezza, per la mia anima che cercava già di raccogliere tutta l'anima inclusa nella chiostra lapidea. Mi nasceva già dal profondo un presentimento misterioso in cui il mio destino si avvicinava e si mescolava a quel destino solitario. E nella memoria mi risonavano con una tenue magia musicale i nomi delle principesse nubili: Massimilla, Anatolia, Violante: nomi in cui parevami fosse qualche cosa di vagamente visibile come un ritratto pallido a traverso un vetro offuscato; nomi espressivi come volti pieni di ombre e di lumi, in cui già parevami scoprire un infinito di grazia, di passione e di dolore.
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