Novelle. Edmondo De Amicis

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Novelle - Edmondo De Amicis

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e brani di vestiti di donna sparpagliati. Più in là, in uno spazio di terreno nudo, due sciabole insanguinate, e da una parte e dall'altra molte orme profonde e nel mezzo un'impronta grande, come del corpo di un uomo caduto. Qua, nella polvere, un tappeto verde lacerato, e intorno carte da gioco e dadi. Più oltre, tra l'erba, una letterina profumata e un mazzetto di mammole appassite. Da un altro lato una croce con sopra scritto: — A mia madre. — E innanzi, innanzi, altri libri sparsi, altre lettere, altre carte da gioco, divise militari smesse, ritratti di donne, conti di sarti, cambiali, sciabole, fiori, sangue. Oh che vasta tela tesse la mente con quei pochi fili scompigliati e rotti! Quanti affetti, quanti dolori, quante lotte, quante pazzie, quante sventure s'intravvedono e si comprendono! Certo anche molte virtù e molti atti generosi; ma quanto più spreco di forza e d'avvenire!

      E quando pure non si fosse sciupato nulla, quando non si fosse, in questi sei anni, tolto un giorno nè un'ora al lavoro, quando non avessimo aperto il cuore ad altri affetti che a quelli che innalzano la mente e rasserenano la vita, avremmo pur sempre perduto una grande e cara illusione, la quale dileguandosi, ha portato con sè una parte della nostra forza e del nostro avvenire: l'illusione di quel lontano orizzonte color di rosa, su cui si disegnavano i profili neri di montagne gigantesche, e schiere interminabili lanciate all'assalto a bandiere spiegate, al suono di musiche allegre.... Una guerra perduta!

      E s'anco non avessimo perduto quest'illusione, non avremmo perduto altro?

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      Io penso a me stesso, e dico: — Quale distanza da diciannove anni a venticinque! Allora, dovunque andassi, ero il più giovane, chè i più giovani di me non mostravano ancora il viso tra gli uomini; e non mi vedevo mai intorno alcuno, di cui non potessi dire che qualcosa m'invidiava: la gioventù, l'allegria, le speranze. Ed ora, dovunque io vada, mi veggo accanto dei giovanetti che mi guardano e mi parlano con quel riserbo rispettoso che s'usa coi fratelli maggiori; e con essi, discorrendo, sento di dover fare uno sforzo per dare al mio discorso una gaiezza che corrisponda alla loro, e non me ne so dar pace, e li guardo e mi domando: — O di dove sono usciti costoro? — E l'altro giorno accennando a un signore una sua bambina di sei anni, gli dissi scherzando: — Chi sa! — ed egli mi rispose: — Signor no, ella è troppo vecchio. — Ed io, sorpreso, tacqui, e feci subito il conto colle dita, e poi mormorai melanconicamente: — È vero. — A diciannove anni, non vedevo bambina di quell'età, ch'io non potessi dire: — Sarà mia moglie! — ; la generazione che veniva su era ancora tutta per me; ora per una parte del mondo io son già troppo avanti nel cammino della vita. E l'avvenire, che allora m'appariva un non so che vago e lucente, su cui la mia fantasia poteva disegnare le cose più belle e più care, senza che la ragione ci trovasse mai a ridire: — Non può essere, — ora comincia a delinearsi, a colorirsi, a prendere una forma, ed io indovino presso a poco che cosa sarà, veggo la mia strada tracciata, e la mia meta distinta, e addio grandezze e meraviglie! E gli uomini? Dio buono, io non son mica per natura inclinato a diffidare, a veder piuttosto il male che il bene nelle cose di questo mondo; al contrario; nel mio piccolo non ho che a render grazie a tutti e di tutto, e indispettisco spesso un mio amico, a cui dico ridendo: — Amo il genere umano! — ed egli mi risponde: — Aspetta che verrà la tua ora anche per te. — Eppure quanto ho già perduto di quel confidente abbandono delle amicizie di diciannove anni, di quel sentimento di ammirazione facile e schietto, che scattava come una molla, al più leggiero tocco, per tutti gli uomini, di cui sentissi esaltare un merito, qualunque fosse e da chicchessia! Due, tre disinganni son bastati a rallentare la molla per sempre. Io mi domando già: — Sarà vero? — e il dubbio mi rimanda indietro le calde e ingenue parole d'affetto che una volta prorompevano mio malgrado. Molti libri, che mi fecero versar lagrime, non me ne fanno versar più; molto più raramente d'una volta, leggendo versi, mi trema la voce; non rido più di quel riso irresistibile e sonoro, di cui echeggiavano un giorno le stanze più remote della mia casa. E quando mi guardo nello specchio, è una mia illusione o una realtà? mi accorgo che nel mio viso c'è qualcosa che a diciannove anni non c'era, un non so che negli occhi, nella fronte, nelle labbra, che non apparisce agli altri, ma che io vedo, e che mi turba. E mi ricordo le parole del Leopardi: — A venticinque anni incomincia il fiore della gioventù a declinare. — Ma come? io declino? son già sul pendio della vita? ho già fatto tanto cammino? Ma sì! Dalla Scuola di Modena son già usciti altri mille ufficiali più giovani di me, me li sento alle spalle che rumoreggiano, che m'incalzano, e mi gridano: — Avanti! — Ma è uno spavento! Lasciatemi respirare, fermatevi un minuto; che c'è bisogno di divorare la via? Voglio star qui, immobile, saldo come una colonna; indietro voi! Ma il terreno è inclinato e liscio, e il piede scivola e non c'è dove aggrapparsi; compagni! amici di diciannove anni! venite, stringiamoci, afferriamoci gli uni agli altri, non ci lasciamo travolgere, resistiamo. Ah! mi manca il terreno sotto, maledizione!

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      Ma che! son vaneggiamenti foschi di giornate piovose; spunta il sole e l'anima si rasserena col cielo. E sempre al breve scoraggiamento segue uno stato d'animo, nel quale mi appare così folle e così codardo quel turbarsi per un'alterazione del viso, e rimpiangere l'allegria spensierata della prima giovinezza, e volersi ribellare con uno sfogo di rammarico dispettoso alle leggi della natura, che mi vergogno, mi scoto, mi risollevo, riafferro la mia fede, le mie speranze, i miei propositi, e mi rilancio al lavoro con una risoluzione piena di alterezza e di gioia. E in quei momenti mi sento la forza di aspettare a fronte serena i trent'anni, i disinganni, i capelli bianchi, i dolori, gli acciacchi, la vecchiaia, cogli occhi della mente fissi dinanzi a me, lontano, in un punto luminoso che mi pare che ingrandisca via via che procedo. E vo innanzi con più coraggio; e a uno sciame di gente inebbriata e clamorosa che mi dice: — Con noi! — rispondo fieramente: — No! — e a una folla di giovani malinconici, che mi dicono, crollando il capo: — Forse non è vero! — rispondo, senza allontanar gli occhi da quel punto, con una voce gioiosa e entusiastica: — No! — e a una moltitudine di uomini gravi e superbi, che toccandomi e accennandomi le loro carte e i loro libri mi dicono con un sorriso di pietà e di dileggio: — È un sogno! — io rispondo sempre guardando là, con un grido che mi prorompe dal più profondo dell'anima, come se mi vedessi ricomparir dinanzi una persona morta: — No! — Oh! in quel momento mi si venga pure a dire che debbo invecchiare e morire; che m'importa? Io lavoro, io credo, io aspetto!

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      E nella più parte di quei miei compagni è seguìta o segue la medesima cosa. I volti si son fatti più serii, o come vuol che si dica il Leopardi, più tristi; ma coi volti si son composti a serietà anche gli animi. Dissi i mutamenti che mi addoloravano; ma ci sono anche quelli che mi confortano. Incontro qualcuno dei miei compagni, di quei che avevano meno giudizio e meno proposito, e mi meraviglio di sentirli parlare, come parlano, di patria, di lavoro, di dovere da compiere, di avvenire da preparare. Un rivolgimento generale s'è operato negli animi, e, forse in virtù dei molti e grandi casi seguìti in questi pochi anni, oltre che generale, precoce. In alcuni una segreta ambizione, in altri la cura della famiglia, in molti la sazietà della vita dissipata, in non pochi una schietta e spontanea passione per gli studii, sorta all'improvviso in mezzo alla noia degli ozii della guarnigione, hanno raccolto i pensieri vaghi, e composto ad uno scopo le forze disperse; hanno indotto l'abito della riflessione, e rivolte le menti ai grandi problemi della vita; hanno dato a tutti un perchè di questa vita e segnato a tutti un cammino da percorrere, e tolto il tempo di rimpiangere inutilmente il passato. Siamo entrati nella seconda giovinezza, con qualche disinganno, con un po' di esperienza e colla persuasione che la felicità, — quel poco che se ne può godere quaggiù, — non si ottiene dibattendosi e tempestando e gridando al cielo e alla terra: — La voglio!

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