La gran rivale. Luigi Gualdo

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La gran rivale - Luigi Gualdo

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uigi Gualdo

      LA GRAN RIVALE

      LA GRAN RIVALE

      Quando essi passavano dandosi il braccio, guardandosi con occhi che ben si vedeva erano senza segreti l’un per l’altro, con quell’armonia di andatura che indica l’armonia dei pensieri, era impossibile che in quelli che comprendono non destassero involontariamente un senso d’invidia. Si seguivano con lo sguardo e dopo non si poteva a meno che, fantasticando, seguire col pensiero nella loro vita quei due esseri che davvero sembravano eccezionalmente felici. Tornavano a mente allora tutte le scoraggianti elegie che negano ogni felicità in questa valle di miserie e non si poteva a meno di pensare quanto quei due ch’erano passati ne fossero una vivente contradizione, e ciascuno sentiva persino le proprie idee tristi e tetre svanire come la neve al sole, e insieme all’amaro dell’invidia sorgere in cuore il dolce della speranza.

      Essi erano una bella coppia davvero. Ella era una fra le donne che non si dimenticano facilmente e la cui bellezza, se non fulmina a primo aspetto, commove però fortemente ogni volta che si rivede. Imaginatevi un ovale di volto non perfettissimo, ma espressivo e caratteristico al sommo grado; dei capelli bruni a riflessi più chiari, finissimi e folti; degli occhi grandi, tagliati in forma di mandorla, dallo sguardo buono e penetrante; una bocca che attira, fresca e purissima, un nasino non greco e forse un po’ cosmopolita, ma talmente fatto per quel viso da non sembrare possibile in qualunque altro, una fronte perfetta, delle sopracciglia d’un arco purissimo, e sparsa sopra tutto ciò una tinta di malinconia consolata che riempiva l’anima di chi guardasse di pensieri sereni. Seduceva il suo corpo, benchè non ricordasse la maestà dei modelli antichi; piuttosto alta, con una vita flessibile da cui si allargava un busto perfetto di forma. Il suo piccolo piede era affascinante per la forma e il movimento e per l’aristocratica attaccatura. Egli era un bel giovane di trent’anni, con una di quelle fisonomie espressive in cui è impresso indelebilmente il marchio dell’intelligenza e dove ogni linea esprime una tendenza o un sentimento; la bocca, forse un po’ grande, aveva un sorriso pieno di bontà e d’ironia al tempo istesso, e fra li occhi apparivano quelle due piccole rughe perpendicolari, segno di una volontà feconda. Nell’insieme era una di quelle figure che a primo aspetto invogliano a stendere la mano.

      Tutti quelli che viaggiano molto li vedevano spesso quando meno se l’aspettavano; si scorgevano passeggiare sui boulevards e non era difficile incontrarli una settimana dopo sulle ghiacciaie o sul Righi; nella sala del casino di Baden o a Nizza sulla promenade des Anglais – ed essi erano una macchietta simpatica per qualunque scena. Certo li avrete veduti qualche volta in una barchetta qualunque, di autunno sul lago di Como e mirandoli stretti l’un contro l’altro il cielo vi sarà sembrato più azzurro e la brezza più soave. Era bello vedere – quando correvano per i monti – la tenera sollecitudine con la quale egli la sorreggeva nei passi difficili e le dava la mano per saltare da qualche macigno e la serena confidenza con la quale ella si appoggiava al suo braccio! E allora il sorriso abbozzato sulla bocca dell’uno si disegnava su quella dell’altro.

      Ma la loro dimora abituale era Firenze, e tutti i giorni s’incontravano sul Lungarno e alle Cascine, e spesso quando il sole era tramontato e l’ombra scendeva, la loro carrozza s’internava nel folto delle piante, e allora la testa di lei si appoggiava sulla spalla dell’amante.

      Questa parola s’è pur dovuto scriverla, poichè nemmeno la più piccola apparenza di cerimonia civile o religiosa li aveva uniti. Ed essi si permettevano pel momento di assaporare tutta la felicità che può essere concessa quaggiù.

      La loro storia, il loro romanzo se si vuole, era una prova di più che molto spesso in questa vita le circostanze ne obbligano a seguire una strada assai diversa da quella che si voleva percorrere. Si erano parlati per la prima volta in una di quelle fiere di beneficenza, dove le signore fanno salire ad una cifra arbitraria il prezzo degli oggetti più insignificanti, a seconda del sorriso con cui li accompagnano. Alberto aveva già veduto molte volte la bella signora O***, come tutti chiamavano la nostra eroina, e l’aveva ammirata – tanto più ch’egli era particolarmente attirato da quel genere di bellezza moderna il cui fascino principale sta nell’espressione indefinibile; ma non la conosceva. Quel giorno una signora che si trovava allo stesso banco lo presentò. Non furono scambiate che poche frasi di circostanza, accompagnate dall’inevitabile: «Spero che avrò il piacere di vederlo qualche volta» che una signora dice sempre quando parla con qualcuno che conosce da molto tempo di nome. Alberto vi andò pochi giorni dopo, ma, dobbiamo dirlo col massimo dispiacere e chiedendone scusa alle lettrici amanti dei colpi di fulmine nella passione, essi non si amarono il primo giorno che si conobbero, e nemmeno il secondo, e nessuna scintilla passò dallo sguardo di lui in quello di lei. I loro cuori non cozzarono l’un contro l’altro come due proiettili e non ebbero sul principio vicendevolmente che una di quelle frivole simpatie come se ne possono avere per dieci persone a un tempo.

      La famiglia di lei era assai ristretta finanziariamente, quasi povera. Erano in molti e i danari pochi, dimodochè quando il signor O*** si presentò e chiese la sua mano, la proposta fu accolta con l’entusiasmo di una felicità «ch’era follia sperar». Quando ella era giunta ai sedici anni e che le vesti corte si erano dovute allungare dello strascico, all’affacciarsi di quel problema inquietante ch’è il matrimonio per le fanciulle che hanno per sola dote la freschezza verginea della guancia, la povera madre aveva sentito l’angoscia che tutte le madri in simili circostanze provano, e sebbene quando quella fortuna inaspettata si presentò, ella le dicesse: «Emilia, pensaci bene prima di accettare e fa solo quello che il tuo cuore ti consiglia,» lo disse però con una paura terribile di un rifiuto, e udendo la risposta affermativa della fanciulla le gettò le braccia al collo con uno slancio irreprimibile di riconoscenza materna.

      O*** era un negoziante di seta, assai ricco, generoso, volgare. Giovane ancora, benchè cominciasse ad impinguare un tantino, egli era stato il sogno di moltissime fanciulle, e la sua scelta per l’Emilia, che «non aveva un soldo,» fu causa di rabbioso stupore per tutte. Rideva di un riso forte, spontaneo, inatteso; amava le donne, i cavalli e i romanzi di Ponson du Terrail, del resto un buon diavolo nel significato più elastico della parola, e capace perfino di una buona azione. Concesse a sè medesimo il lusso di sposare una bella giovane senza dote, perchè ciò era nei suoi mezzi; inoltre perchè Emilia gli piaceva assai ed era una donna come la voleva lui, «senza pretesa.» Il corredo fu magnifico e dopo sei mesi di matrimonio, Emilia era ancora «felicissima.» Un anno però era appena trascorso, che già le cose cominciarono a mutare. O*** aveva una dopo l’altra riprese molte delle sue abitudini di scapolo; gli affari lo occupavano nella giornata; prima di pranzo andava a fare un giro a cavallo e dopo accompagnava sua moglie in teatro o in qualche casa, ove la lasciava e non ritornava a casa che al mattino. Del resto, sempre gentilissimo con lei, preveniva i suoi desiderii, non diceva una parola per i conti piuttosto lunghi e era raramente di cattivo umore. Un piccolo erede era apparso all’orizzonte.

      Emilia lo aveva sposato perchè non sperava trovar meglio; ma capì in brevissimo che non lo avrebbe mai amato. Pure soffriva alcun poco nell’amor proprio vedendo quanto facilmente egli avesse riprese le sue abitudini di prima.

      Ella era un novello astro sorto nel mondo elegante (come dicono i giornalisti), e non tardò molto ad attirare gli sguardi. Tutti aspirarono al piacere di conoscerla, e in breve ebbe ogni giorno dopo le quattro la visita d’un certo numero di uomini che tutti si credevano in obbligo di farle la corte o di far credere che gliela facessero. Qualche signora dell’altissima società si degnò di accordarle la sua amicizia; fu di tutte le feste, di tutti i divertimenti. Cominciò per lei quella vita che comincia per tutte le donne in simile posizione; fece parlare di sè in modo vago senza però che nè le dicerie nè i pettegolezzi potessero appoggiarsi su alcun che di sicuro, suscitò qua e là qualche passione, eccitò molte rivalità che riuscirono dolci al suo orgoglio muliebre, divenne di una certa abilità nella diplomazia femminile.

      Quando ella conobbe Alberto, qualche anno era passato e le cose erano in parte cambiate. Finanziariamente eransi piuttosto abbassati, poichè O*** sul principio aveva speso un po’ troppo, e aggiungendosi a ciò qualche speculazione fallita, era stato necessario restringere le spese. Inoltre un vero dolore l’aveva colpita, la perdita del suo bambino, morto

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