Capitan Tempesta. Emilio Salgari

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Capitan Tempesta - Emilio Salgari

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avvertiti, malgrado la loro estrema debolezza causata dai lunghi digiuni, non ignorando che se i turchi fossero riusciti a varcare le cinte, non sarebbero sfuggiti alle loro scimitarre, erano prontamente accorsi a rinforzare i bastioni più maltrattati colle macerie levate dalle loro abitazioni, già quasi tutte demolite da quel lungo assedio.

      Una profonda angoscia si era impadronita di tutti. Sentivano per istinto che la fine di Famagosta era prossima e che una orribile strage stava per succedere.

      L’esercito turco, venti volte superiore agli assediati, sicuro della sua strapotente forza, e della immensa superiorità delle sue artiglierie, stanco di quel lunghissimo assedio che lo stremava da mesi e mesi, doveva tentare uno di quei formidabili sforzi a cui nessuno può resistere: nè la saldezza dei cuori meglio corazzati contro la paura, nè il valore disperato, nè la fede incrollabile.

      Durante la giornata, gli assedianti si mantennero tranquilli, limitandosi a sparare solo, di quando in quando, qualche colpo di colubrina, più per rettificare il tiro dei loro pezzi, che per danneggiare le opere di difesa degli assediati; però si vedeva nel loro campo un movimento insolito.

      Gruppi di cavalieri partivano ad ogni istante dalle tende del Gran vizir e dei pascià, recandosi alle estreme ali dell’esercito per portare ordini e si scorgevano gli artiglieri trascinare i loro pezzi verso le trincee, mentre bande di minatori si disperdevano per la pianura strisciando come serpenti per non farsi mitragliare.

      I capitani cristiani, Bragadino, Martinengo, Tiepolo e l’albanese Manoli Spilotto, dopo aver tenuto consiglio col governatore della piazza, Astorre Baglione, avevano deciso di prevenire l’assalto dei turchi con un furioso bombardamento, onde tener lontani i minatori ed impedire alle artiglierie turche di piazzarsi indisturbate nei punti migliori.

      Ed infatti, appena scoccato il mezzodì, tutti i pezzi che guarnivano i bastioni e le torri aprirono tosto un fuoco infernale coprendo la pianura di ferro e di palle di pietra, mentre i più abili archibugieri, nascosti dietro i parapetti ed i merli, gareggiavano fra di loro nel freddare i minatori che s’avanzavano incessantemente, cercando di ripararsi dietro le ineguaglianze del suolo.

      Quel rimbombo assordante durò fino al calar del sole, causando agli assedianti non poche perdite e smontando parecchie colubrine; poi, appena le tenebre furono fitte, squillarono le trombe d’allarme per far accorrere l’intera popolazione alla difesa delle cinte.

      L’esercito turco si spiegava allora per la tenebrosa pianura, in masse enormi, pronto a tentare un assalto generale.

      Suonavano pure le trombe turche e rullavano i timballi della cavalleria. Urla spaventevoli si alzavano di quando in quando, echeggiando sinistramente agli orecchi dei guerrieri veneti e si udivano, nei brevi momenti di silenzio, le grida dei muezzin che incoraggiavano e fanatizzavano i figli dell’Islam.

      – Nel nome di Allah! Distruggete! Uccidete! Non vi è Dio fuor di Dio e Maometto è il suo Profeta!

      La difesa dei cristiani si era concentrata sul bastione di San Marco, perchè sapevano che lo sforzo maggiore del nemico sarebbe stato volto verso quello, essendo la chiave di Famagosta.

      I migliori capitani, fra i quali Tempesta, avevano radunate colà le loro compagnie e piazzate venti colubrine, scelte fra le più grosse.

      Il fuoco di quelle numerose bocche, manovrate per lo più da marinai veneti, che godevano allora fama di essere valentissimi, doveva fare dei grandi vuoti fra le colonne turche che muovevano all’attacco, compatte, sfidando serenamente la morte.

      Anche dalle torri gli assediati sparavano furiosamente, massacrando specialmente la cavalleria che galoppava in tutti i sensi, per avvolgere completamente la città ed impedire la fuga degli abitanti ormai condannati al macello.

      Il fuoco era stato appena ripreso, quando El-Kadur, che aveva lasciato il campo turco prima che gli assedianti si muovessero, scalò il bastione presentandosi a Capitan Tempesta:

      – Signora, – disse con un forte tremito nella voce, fissandolo con estrema ansietà. – Ecco, l’ora terribile sta per suonare per Famagosta. A meno d’un miracolo, domani la città sarà nelle mani degli infedeli.

      – Siamo tutti pronti a morire, – rispose la duchessa con accento di rassegnazione. – E il signor Le Hussière?

      – Lo salverà Iddio.

      – Vi è forse ancora tempo per fuggire. Coperta dal mio mantello arabo potresti passare inosservata fra la confusione orribile che succederà fra poco.

      – Sono un soldato della Croce, El-Kadur, – rispose la duchessa con fierezza. – Io non priverò Famagosta d’una spada che saprà fare il suo dovere.

      – Pensa, signora, che domani forse non sarai più viva, perchè io so che il gran vizir ha ordinato di passare tutti a fil di spada.

      – Sapremo morire da forti, – rispose la duchessa, soffocando un sospiro. – Se è scritto che nessuno di noi sopravviverà a questo memorando assedio, si compia il nostro destino.

      – Non vuoi venire dunque, signora? – insistette El-Kadur.

      – È impossibile: Capitan Tempesta non può disonorarsi dinanzi alla cristianità.

      – Ebbene, padrona disse l’arabo con una specie di esaltazione, – Morrò anch’io al tuo fianco.

      Poi aggiunse fra sè:

      – La morte spegne tutto ed il povero schiavo riposerà tranquillo.

      Intanto il cannoneggiamento era diventato terribile. Le duecento colubrine turche, una artiglieria formidabilissima per quei tempi, avevano aperto il fuoco a loro volta, tempestando con violenza inaudita i bastioni e le torri già semi-diroccate da tanti mesi d’assedio.

      Palle di ferro e palle di pietra cadevano in gran numero sulle opere di difesa, facendo strage dei difensori, e scariche di moschetteria si succedevano senza posa. La tenebrosa pianura pareva un mare di fuoco ed il rimbombo era così spaventevole che i bastioni tremavano e si sgretolavano, rovinando nei fossati sottostanti.

      I guerrieri veneti, quantunque oppressi da quella grandine micidialissima, non si scoraggiavano e aspettavano a pié fermo l’urto immane delle sterminate orde, che muovevano all’assalto con un vociare che pareva l’ululato di miriadi e miriadi di lupi famelici, bramosi di carne umana.

      Tutti gli abitanti che potevano ancora reggere un’arme, erano accorsi sui bastioni armati di picche e di alabarde, di spadoni e di mazze, invasi da un pazzo furore, mentre le loro donne ed i fanciulli si rifugiavano, urlando e piangendo, nella chiesa principale, sotto una pioggia incessante di bombe che diroccavano le ultime case, come se là dentro fosse bastato il ruggito del morente Leone della Repubblica Veneta a trattenere gli adoratori della Mezzaluna e di Maometto.

      Un frastuono orrendo copriva Famagosta, Le torri, smantellate dalle artiglierie nemiche, crollavano con immenso fragore, e le cinte si sfasciavano travolgendovi gli sfortunati difensori, mentre le schegge delle enormi palle di pietra volavano dovunque, mutilando guerrieri, donne e fanciulli.

      Astorre Baglione, governatore generale, assisteva impassibile a quella strage, appoggiato alla sua spada, aspettando, col cuore stretto però da un’angoscia inesprimibile, l’urto supremo.

      Ritto in mezzo ai suoi capitani, impartiva con voce tranquilla gli ordini, già rassegnato da lunga pezza al suo destino e pronto a sfidare la morte.

      Sapeva che il vizir non lo avrebbe risparmiato, se fosse uscito vivo da quella lotta formidabile e guardava

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