Capitan Tempesta. Emilio Salgari

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Capitan Tempesta - Emilio Salgari

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I turchi! È caduta Famagosta?

      – Non ancora, signora.

      – Ed io sono qui mentre gli altri si fanno uccidere?…

      – Sei ferita.

      – È vero… provo un dolore acuto qui… mi hanno colpito con una palla o con un colpo di spada? Non mi rammento più nulla.

      – È stata una scheggia di pietra che ti ha spezzata la corazza.

      – Dio, che frastuono!

      – I turchi montano all’assalto.

      La duchessa si era fatta maggiormente pallida.

      – È perduta la città? chiese con angoscia.

      – Non lo so, signora, ma io non lo credo. Odo le colubrine del bastione di San Marco a tuonare sempre.

      – El-Kadur, va’ a vedere che cosa succede.

      – E tu, signora? Come posso lasciarti sola?

      – Tu sei più utile sulle mura che qui.

      – Non oso, padrona, abbandonarti.

      – Va, – disse la duchessa con un gesto imperioso. – Va o io mi levo e, dovessi morire a mezza via, lascerò questo rifugio. È il momento terribile in cui tutti i soldati della Croce combattono e tu hai rinnegato la fede del Profeta e sei cristiano al pari di me. Va, El-Kadur, lo voglio e uccidi anche tu gli infedeli, i nemici della nostra religione.

      L’arabo abbassò il capo, esitò un momento guardando la duchessa cogli occhi umidi, poi, estratto il jatagan, si slanciò fuori, mormorando:

      – Che il Dio dei cristiani mi protegga per salvare la mia padrona.

      CAPITOLO VI. Una notte di sangue

      Mentre l’arabo si dirigeva correndo verso il bastione di San Marco tenendosi rasente le case per non essere colpito dalle palle che cadevano sempre fitte sulla città, sprofondando nei tetti e abbattendo, col loro peso, i piani inferiori, le orde turche che erano già riuscite a varcare la pianura nonostante il fuoco intenso dei cristiani, avevano cominciato l’attacco generale.

      Famagosta era ormai tutta avvolta in un cerchio di fuoco e di ferro, che si stringeva sempre più, lentamente certo, ma sicuramente.

      Lo sforzo supremo era diretto contro il bastione di San Marco, nondimeno anche le torri e le cinte erano assalite vigorosamente da enormi masse di combattenti che sfidavano sorridendo la morte.

      I giannizzeri, quantunque avessero subìto perdite enormi, coprendo la pianura dei loro cadaveri, si erano spinti finalmente sotto il formidabile bastione che le mine avevano in parte squarciato ed erano già venuti all’arma bianca, assalendo con impeto irrefrenabile le compagnie degli schiavoni e dei candiotti che lo difendevano, mentre gli albanesi, gli irregolari dell’Asia Minore, ed i selvaggi figli dell’Arabia, tentavano di dare la scalata alle torri e di espugnarle.

      Salivano i miscredenti colla furia di tigri affamate, arrampicandosi come scimmie su per l’erta scarpa e le macerie, coll’jatagan stretto fra i denti e le scimitarre in mano, coprendosi coi loro scudi di ferro adorni di code di cavallo e d’una mezzaluna d’argento.

      La mitraglia che li colpiva in pieno, quasi a bruciapelo, sgominava di quando in quando le loro file, poi i superstiti passavano impavidi sui morti e sui moribondi e stringevano subito le file, urlando a squarciagola:

      – Uccidete! Sterminate! Il Profeta lo vuole.

      Ed i formidabili giannizzeri, tutti vecchi veterani che avevano provato il valore delle spade venete a Cipro ed a Negroponte e sulle coste dalmate, salivano col sorriso sulle labbra, sorrisi di belve affamate e assetate di sangue cristiano, credendo nel loro cieco fanatismo di scorgere fra il lampo degli acciai nemici i visi bellissimi delle urì del paradiso promesso dal Profeta. Che importava a loro la morte se le fanciulle del cielo aspettavano colle loro candide braccia i baldi guerrieri che morivano eroicamente sul campo di battaglia in difesa della Mezzaluna? Forse che Maometto non l’aveva promesso? E s’avanzavano sempre, con lena furibonda, strepitando ferocemente, agitando forsennatamente le scimitarre fiammeggianti, mentre dietro di loro la pianura si copriva di fumo e le artiglierie tuonavano senza un momento di tregua, coprendo Famagosta di ferro e di palle di pietra incandescenti.

      I cristiani però tenevano testa all’impeto di quelle masse enormi. Incoraggiati dalla presenza del governatore, la cui voce tuonava senza che il rombo delle artiglierie riuscissero a soffocarla, opponevano una resistenza ammirabile.

      Stretti sul bastione, formavano una muraglia di ferro che le scimitarre degli infedeli non riuscivano a sfondare. Picchiavano tremendamente colle mazze, sfondando gli scudi degli assalitori o fracassando elmetti e cimieri; calavano gran colpi di spada, spaccando teste e troncando braccia; foravano colle alabarde e colle picche e moschettavano a bruciapelo, mentre le colubrine seminavano la morte con scariche di mitraglia.

      Era una lotta titanica, gigantesca, che empiva di terrore tanto gli assaliti quanto gli assalitori.

      Intanto anche sugli altri bastioni ed intorno alle torri si combatteva con rabbia estrema e con egual strage. Gli albanesi e gli irregolari dell’Asia Minore, resi furibondi dall’ostinata resistenza che opponevano gli assediati e dalle immense perdite subìte, tentavano con sforzi disperati di superare le cinte, appoggiandovi un numero infinito di scale che venivano quasi sempre rovesciate nei fossati con tutti quelli che vi erano sopra.

      Anche da quella parte la strage era così immensa che le scarpate grondavano sangue, come se migliaia di buoi venissero macellati sopra le merlature. I turchi cadevano a drappelli interi, massacrati dai moschetti, dalle spade e dalle picche, ma altri subito subentravano e ritentavano gli attacchi con cieca ostinazione.

      S’accanivano specialmente contro le torri, sulle cui piattaforme le colubrine venete sparavano senza perdere un istante ed era là che subivano le maggiori perdite. Quei vecchi ed altissimi edifici non erano facili ad espugnarsi, poichè opponevano una resistenza meravigliosa alle mine ed agli arieti.

      Si smantellavano i rivestimenti esterni, ma quelli interni non cedevano facilmente, tanto quelle torri erano state solidamente costruite dagli ingegneri della Repubblica Veneta.

      Di tratto in tratto, i cristiani, disperando ormai delle proprie difese, decisi a morire colle armi in mano, piuttosto di lasciarsi trucidare più tardi freddamente, smantellavano colle loro mazze e colle scuri le merlature, facendo piovere sugli assalitori ammassi di macerie che ne storpiavano un gran numero.

      Mentre su tutti i punti della città, soldati e abitanti gareggiavano in valore, risoluti a tutto tentare pur di infliggere al crudele nemico perdite enormi, fra quell’orrendo frastuono di bronzi tuonanti e di urla di moribondi e di combattenti, fra quel cupo fragor di spade e di mazze percuotenti scudi e armature, fra lo scoppiar fragoroso delle mine, squillavano sempre per l’aria fumante, le campane delle chiese e dalle strette viuzze, s’alzavano le preghiere delle donne singhiozzanti, imploranti San Marco, il protettore della Repubblica Veneta.

      Quando El-Kadur, sfuggito miracolosamente alle palle di pietra che grandinavano sulla città, lasciando dietro delle strisce di fuoco come fossero bolidi, giunse al bastione principale, contro cui s’accanivano i giannizzeri, la lotta aveva preso proporzioni terribili.

      Le piccole falangi cristiane, oppresse dagli assalti incalzanti degli infedeli, decimate dal fuoco delle pesanti colubrine piazzate nella pianura, affrante da quella battaglia che durava

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