Capitan Tempesta. Emilio Salgari

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Capitan Tempesta - Emilio Salgari

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fanciulle di Nicosia furono risparmiate, e queste per essere inviate schiave a Costantinopoli.

      Le orde islamite, imbaldanzite da quella facile vittoria, si erano subito volte verso Famagosta colla speranza di prenderla in breve d’assalto. Baglione e Bragadino però non erano rimasti colle mani alla cintola e in quel frattempo avevano rinforzate le difese per resistere fino all’arrivo dei rinforzi veneti.

      Il 19 luglio del 1571, le sterminate orde turche comparivano dinanzi alla città, cominciandone l’assedio e l’indomani ne tentavano l’assalto, ma, come prima a Nicosia, venivano ributtate nei loro accampamenti, con grande strage.

      Il 30 luglio, dopo un continuo bombardamento ed un incessante scoppiare di mine per indebolire le torri e i bastioni, per la seconda volta Mustafà aveva guidato all’attacco le sue truppe ed il valore dei guerrieri veneti aveva ancora trionfato. Tutti gli abitanti erano corsi alla difesa, comprese le donne, le quali tenacemente avevano combattuto a fianco dei forti guerrieri della Repubblica, niente atterrite dalle urla selvagge degli assalitori, nè dalle loro formidabili scimitarre, nè dal tuonare tremendo delle artiglierie.

      Nell’ottobre gli assediati, che già erano riusciti, con frequenti sortite, a tenere a distanza i turchi, ricevevano i promessi soccorsi consistenti in mille e quattrocento fanti, comandati da Luigi Martinengo e in sedici cannoni.

      Era ben poca cosa per una città assediata da più di sessantamila nemici, tuttavia quell’aumento di truppe era giovato assai a rialzare lo spirito degli assediati già molto depresso, ed a indurli a resistere con maggior vigoria.

      Disgraziatamente i viveri e le munizioni scemavano a vista d’occhio ed il bombardamento dei turchi non lasciava un istante di tregua ai veneziani. La città era ormai un ammasso di rovine e ben poche case si reggevano ancora in piedi.

      Per di più, pochi giorni dopo giungeva a Cipro Alì pascià, grande ammiraglio della flotta turca, con una squadra di ben cento galee, montate da altri quarantamila guerrieri.

      Famagosta ormai era stretta da tutte le parti da un cerchio di fuoco e di ferro, che nessuna forza umana avrebbe potuto ormai più spezzare. Le cose erano a questo punto, quando accadde il fatto narrato nel capitolo precedente.

***

      Gli schiavoni, appena giunti sul bastione, gettate le alabarde che erano affatto inutili in quel momento, si erano subito appostati dietro ai pochi merli che ancora esistevano, armando i loro pesanti moschettoni e soffiando vigorosamente sulle micce, mentre gli artiglieri, quasi tutti marinai delle galere venete, continuavano a far tuonare le loro colubrine.

      Capitan Tempesta, nonostante le prudenti raccomandazioni del suo tenente, s’era spinto fino sull’orlo del bastione, tenendosi riparato dietro un merlo semimozzo che ad ogni colpo di colubrina a poco a poco si sgretolava.

      Nella pianura tenebrosa che si estendeva dinanzi alla disgraziata città, votata ormai ad una fine miseranda, si vedevano brillare qua e là dei punti luminosi, poi dei lampi accompagnati da formidabili detonazioni, e dai sibili rauchi delle grosse palle di pietra.

      I turchi, sempre più inferociti dalla lunga resistenza opposta dalla piccola guarnigione veneta, stavano scavando nuove trincee per assalire più da vicino il bastione, che quantunque semidiroccato, non accennava ancora a sfasciarsi mercè l’enorme massa di materiali che le valorose donne rovesciavano ogni notte nei fossati per rinforzarlo.

      Di tratto in tratto degli uomini audaci, che avevano fatto volontariamente sacrificio della loro vita per guadagnarsi con maggior sicurezza il meraviglioso paradiso del Profeta, salivano carponi la scarpa del bastione e, approfittando della notte tenebrosa, preparavano mine per rovesciare quella massiccia muraglia che i cannoni non erano capaci di sfondare.

      Gli schiavoni, che avevano buoni occhi, non li risparmiavano e molti ne fulminavano coi loro moschettoni, ma altri fanatici, punto atterriti, li sostituivano subito e delle esplosioni tremende, che scuotevano perfino le colubrine piazzate dietro i pochi merli, si succedevano, diroccando ora un angolo ed ora uno sperone od il margine del profondo fossato.

      Le donne di Famagosta però erano là, pronte a gettare sassi e corbe colme di terra, onde riempire le buche aperte da quegli scoppi; sempre impassibili, sempre risolute, docili al comando dei prodi difensori, guardando serenamente le palle infuocate che solcavano l’aria e che nel cadere si spezzavano in mille frantumi, essendo per la maggior parte di pietra.

      Capitan Tempesta, muto, impassibile, guardava i fuochi che illuminavano l’immenso campo turco. Che cosa cercava di scoprire? Lui solo probabilmente lo sapeva.

      Ad un tratto si sentì urtare un gomito, mentre una voce gli sussurrava agli orecchi, in un pessimo dialetto napoletano:

      – Eccomi, padrona.

      Il giovane si era voltato vivamente, colla fronte aggrottata, poi ad un tratto un grido a malapena frenato gli sfuggì:

      – Tu, El-Kadur?

      – Sì, padrona.

      – Taci! Non chiamarmi così. Nessuno deve sapere chi io veramente sia.

      – Hai ragione, signora… signore.

      – Ancora? Vieni!

      Afferrò l’uomo che aveva pronunciato quelle parole, e lo trasse, tenendolo sempre stretto per un braccio, giù dal bastione conducendolo in una casamatta, che era illuminata da una torcia e che in quel momento era deserta.

      Quell’individuo, che il giovine capitano non aveva ancora lasciato, era un uomo alto e magrissimo, colla pelle assai abbronzata, i lineamenti duri, il naso affilato e gli occhi piccoli e nerissimi. Vestiva come i beduini dei deserti arabi, teneva sulle spalle un ampio mantello di lana oscura, con cappuccio adorno d’un fiocco rosso e sul capo portava un turbante bianco e verde. Dalla cintura o meglio dalla fascia rossa, che gli stringeva i fianchi, si vedevano uscire i calci di due lunghe pistole, di forma quasi quadra, come quelle usate dagli algerini e dai marocchini, e l’impugnatura d’un jatagan.

      – Dunque? – chiese Capitan Tempesta, quasi con violenza, mentre i suoi occhi s’illuminavano d’un lampo strano.

      – Il visconte Le Hussière è sempre vivo rispose El-Kadur. – L’ho saputo da uno dei capitani del vizir.

      – Che ti abbia ingannato? chiese il giovane capitano, con voce tremula.

      – No, signora.

      – Non chiamarmi signora, te lo dissi già.

      – Qui non vi è nessuno che possa ascoltarci.

      – E dove l’hanno condotto? Lo sai, El-Kadur?

      L’arabo fece un gesto desolato.

      – No, signora, non ho ancora potuto saperlo; tuttavia non dispero. Sono diventato l’amico d’un comandante che, quantunque mussulmano, beve Cipro a barili, infischiandosene del Corano e del Profeta, e una sera od un’altra riuscirò a carpirgli il segreto. Ve lo giuro, padrona.

      Capitan Tempesta o meglio la capitana – giacchè non era un uomo – si era lasciata cadere sull’affusto d’un cannone, prendendosi la testa fra le mani. Due lagrime le scendevano sul suo bel viso, che in quel momento era diventato pallidissimo.

      L’arabo, ritto dinanzi a lei, col mantello stretto intorno all’agile corpo, la guardava con profonda commozione. Il suo viso duro e selvaggio tradiva un’angoscia inesprimibile.

      – Potessi, signora, col mio sangue

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