Capitan Tempesta. Emilio Salgari

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Capitan Tempesta - Emilio Salgari

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alla morte, signora, sarò lo schiavo più fedele.

      – Non schiavo, amico.

      Gli occhi nerissimi dell’arabo si illuminarono d’un lampo intenso, diventando quasi fosforescenti.

      – Io ho rinnegato senza rimpianti la mia stolta religione, disse, dopo un altro breve silenzio – e non ho mai dimenticato che il duca d’Eboli, tuo padre, mi strappò, quand’ero fanciullo, al mio crudele padrone che tutti i giorni mi batteva a sangue. Che cosa devo fare ora?

      Capitan Tempesta non rispose. Pareva che seguisse un pensiero profondo che evocava in lui dei dolorosi ricordi, a giudicarlo dall’espressione angosciosa del suo bel viso.

      – Sarebbe stato meglio che io non avessi mai veduta Venezia, quella sirena incantatrice dell’Adriatico e che non avessi mai lasciate le azzurre acque del golfo di Napoli… disse ad un tratto, come parlando fra sè. – Il mio cuore non soffrirebbe ora così atrocemente.

      Ah quella notte deliziosa sul Canal Grande, fra i marmorei palazzi dei nobili veneti! La rivedo come fosse ieri, e quando vi penso sento scorrermi nelle vene un fremito che prima non avevo mai provato.

      Egli era là, dinanzi a me, bello come un dio della guerra, seduto sulla prora della gondola e mi guardava sorridendo e mi rivolgeva delle frasi deliziose, che mi scendevano in fondo al cuore come una musica celeste. Per me aveva dimenticato le preoccupazioni che in tutti suscitavano le tragiche notizie giuntemi quel giorno e che avevano fatto impallidire perfino i vecchi del Senato, del Consiglio e lo stesso Doge.

      Eppure sapeva che l’avevano scelto a venire qui a misurarsi coll’esercito sterminato degli infedeli; sapeva che qui forse la morte lo attendeva per falciargli la sua giovine e brillante esistenza, eppur sorrideva, ammaliato dai miei occhi.

      Che cosa ne faranno di lui questi mostri? Lo faranno morire lentamente fra i più atroci martirî? È impossibile che lo tengano solamente prigioniero: egli che era diventato il terrore dei pascià, egli che aveva inflitto tante sanguinose sconfitte a queste orde barbariche, a questi lupi sbucati dai deserti dell’Arabia.

      Povero e valoroso Le Hussière!

      – L’ami molto dunque? disse l’arabo che l’aveva ascoltata in silenzio, senza staccarle di dosso gli occhi.

      – Se l’amo! – esclamò la giovane duchessa, con voce appassionata. – Amo come le donne del tuo paese.

      – Forse di più ancora, signora – rispose El-Kadur, soffocando un nuovo sospiro. – Un’altra donna non avrebbe fatto quello che facesti tu, non avrebbe lasciato il bel palazzo di Napoli, non si sarebbe vestita da uomo, non avrebbe assoldato coi propri denari una compagnia e non sarebbe venuta qui a rinchiudersi in questa città assediata da centomila infedeli, a sfidarvi la morte.

      – Potevo io restare tranquilla in patria, quando io sapevo che egli era qui e che correva un così grave pericolo?

      – E non pensi, signora, che un giorno i turchi riusciranno a superare i bastioni e che si rovesceranno sulla città assetati di sangue e di stragi? Chi ti salverà quel giorno?

      – Siamo tutti nelle mani di Dio, – disse la duchessa, con voce rassegnata. – D’altronde se Le Hussière venisse ucciso, io non sopravviverei, El-Kadur.

      Uno spasimo aveva fatto fremere la pelle abbronzata dell’arabo.

      – Signora, disse, alzandosi – che cosa devo fare? È necessario che io approfitti delle tenebre per tornare al campo dei turchi.

      – Cercare sempre per sapere ove lo hanno condotto disse la duchessa. – Dovunque si trovi, noi andremo a salvarlo, El-Kadur.

      – Domani notte sarò qui.

      – Se sarò ancora viva disse la giovane.

      – Che cosa dici, padrona! – esclamò l’arabo, con accento spaventato.

      – Mi sono impegnata in una avventura che potrebbe finir male. Chi è quel giovane turco che tutti i giorni viene a sfidare i capitani cristiani?

      – Muley-el-Kadel, figlio del pascià di Damasco. Perchè questa domanda, padrona?

      – Perchè domani andrò a misurarmi con lui.

      – Tu! – esclamò l’arabo, col viso trasfigurato. – Tu, signora? Questa notte andrò a ucciderlo nella sua tenda onde non venga a sfidare i capitani di Famagosta.

      – Oh! Non temere, El-Kadur. Mio padre era la prima lama di Napoli ed ha fatto di me una spadaccina, che può tener testa anche alle spade dei più famosi capitani del Gran Turco.

      – Chi vi costringe a misurarvi con quell’infedele?

      – Il capitano Laczinki.

      – Quel cane d’un polacco, che pare nutra verso di te un segreto rancore? Agli occhi d’un figlio del deserto nulla sfugge ed avevo indovinato in lui il tuo nemico.

      – Sì, il polacco.

      El-Kadur aveva fatto un salto innanzi, mandando un ruggito da belva, mentre il suo viso assumeva una espressione così feroce e selvaggia che colpì la giovine duchessa.

      – Dove si trova ora quell’uomo? – chiese con voce strozzata.

      – Che cosa vorresti fare, El-Kadur? chiese la capitana con voce dolce.

      L’arabo, con un gesto rapido si levò dalla fascia l’jatagan, facendo scintillare la lucente lama alla luce della lampada.

      – Questo acciaio questa notte berrà sangue polacco, – disse, con voce cupa. – Quell’uomo non vedrà alzarsi il sole di domani, così la sfida non avrà più luogo.

      – Tu non lo farai gli rispose la capitana, con voce ferma. – Si direbbe che Capitan Tempesta ha avuto paura e che ha fatto assassinare il polacco. No, El-Kadur, tu lo lascerai vivere.

      – E dovrò io vedere la mia padrona, misurarsi in un combattimento mortale con quel turco? chiese l’arabo con selvaggio accento. – Potrei io vederla cadere morente sotto i colpi di scimitarra di quell’infedele? La vita di El-Kadur è tua, fino all’ultima stilla di sangue, padrona, ed i guerrieri della mia tribù sanno morire in difesa dei loro signori.

      – Capitan Tempesta deve mostrare a tutti che non ha paura dei turchi, – rispose la duchessa. – È necessario, per allontanare qualsiasi sospetto sul mio vero essere.

      – Lo ucciderò, padrona, – rispose l’arabo con voce sibilante.

      – Te lo proibisco.

      – No, signora.

      – Te lo comando: obbedisci, – disse la duchessa.

      L’arabo piegò il capo e qualche cosa d’umido apparve sotto le sue palpebre.

      – È vero disse – sono uno schiavo e debbo obbedire.

      Capitan Tempesta gli si avvicinò e, posandogli su una spalla la sua bianca mano, gli disse con voce raddolcita:

      – Non schiavo: sei mio amico.

      – Grazie, signora, rispose El-Kadur – farò quello che vorrai, ma ti giuro

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