I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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Raimondo le stava al fianco! La chiamavano per farla assistere a quello spettacolo e per goderne!… Guardò rapidamente nel salone zeppo: non c’era. Però, aveva appena preso posto accanto alle cognate, che la udì nominare: qualcuno diceva:

      «…la villetta affittata a donna Isabella…»

      «Un guscio di noce!» rispose un altro. «I Mongiolino ci stanno come le acciughe in un barile.»

      Ella non comprendeva.

      «Ma i Fersa dove se ne sono andati?»

      Era proprio Raimondo che faceva questa domanda? Non sapeva dunque dov’era colei?

      «Nella campagna di Leonforte; donna Mara ha preferito….»

      Ella comprese a un tratto; la gola le si strinse convulsamente. Andata via senza dir nulla, traversò la casa con gli occhi gonfi e il cuore tumultuante; giunta nella sua camera, cadde ai piedi dell’imagine della Vergine, scoppiando in pianto dirotto; pianto di gioia, di gratitudine di rimorso anche: poiché ella aveva sospettato degli innocenti…

      Le parve di tornare da morte a vita; coi sospetti, cessarono i dolori dell’anima e quelli del corpo; partecipò alla vita della famiglia, assaporò finalmente la dolcezza del riposo. Anche le notizie del colera non le davano timore pei cari lontani; dopo le stragi dell’anno innanzi la pestilenza pareva non trovasse più dove apprendersi, serpeggiava qua e là senza forza.

      Alla villa Francalanza continuava la vita allegra; tutte le sere conversazione e giuoco. Raimondo era adesso il più assiduo alla tavola verde; quand’egli prendeva le carte, le poste aumentavano, il rischio cresceva. Molti s’alzavano, intendendo svagarsi e non lasciarvi la borsa; la principessa di Roccasciano, invece, non chiedeva di meglio, molte volte restava sola col conte a far la bazzica da dodici tarì. Si nascondeva dal marito, il quale, come tutti i parsimoniosi, biasimava ogni specie di giuoco: amici compiacenti stavano alle vedette per farle un segno appena egli s’avvicinava; allora ella e il suo complice facevano sparire i gettoni, interrompevano la partita e si lasciavano sorprendere intenti a una scopa innocente. Raimondo ci si spassava, incitava la principessa al giuoco forte, la tirava in una stanza fuori mano dove restavano più a lungo a contendersi i quattrini, mettendo poi in mezzo, con l’aiuto di tutta la società, il principe sospettoso. Matilde, sorridendo anche lei di quelle scene da commedia, giudicava tuttavia che suo marito facesse male a fomentare così il vizio della principessa; ma non le bastava il cuore di rimproverarlo, tanto la rinata fiducia la faceva indulgente. Purché egli non la tradisse, che le importava del resto? Tra le signore che venivano alla villa, Raimondo pareva non apprezzarne alcuna; stava poco in loro compagnia, si dava tutto al giuoco: il giorno al casino, la sera in casa. Non che biasimarlo, pertanto, ella avrebbe quasi voluto spingerlo in quella via che lo distoglieva da un’altra infinitamente più dolorosa. Il cuor suo lo avrebbe voluto senza nessun vizio, solo amante di lei, della famiglia, della casa; ma lo prendeva com’era, anzi come lo avevano fatto, giacché ella addebitava quel che trovava in lui di men bello alla soverchia indulgenza, al cieco amore della madre.

      Lontano dalle carte, Raimondo s’annoiava. Se non poteva combinare una buona partita, smaniava contro la noia di quel villaggio, contro la conversazione dei villani, contro gli stupidi divertimenti della tombola e delle gite sugli asini. Ella poteva dirgli: «Con chi te ne lagni? Non volesti venirci tu stesso?» Però taceva, affinché egli non prendesse quelle parole come un rimprovero. Invece, vedendolo di cattivo umore, gli domandava dolcemente che avesse.

      «Ho che mi secco, non lo sai?» le rispondeva.

      «Che vuoi farci!… Quando il colera cesserà torneremo a Firenze… Perché non vai al casino?»

      Egli non se lo faceva ripetere. A poco a poco, il giuoco diveniva indiavolato; nel giro di poche ore facevano differenze di centinaia d’onze. Nessuno, in casa, diceva nulla a Raimondo; il principe, già più alla mano con tutti, pareva studiarsi di non pesare per nulla sul fratello. Un giorno questi, poiché da Milazzo, per via del colera, tardavano a mandargli denari, gli chiese, in conto delle rendite ereditate, qualche centinaio d’onze: il principe mise la propria cassa a sua disposizione; egli tornò ad attingervi a più riprese. Naturalmente, se il colera non finiva, non si poteva far nulla per la sistemazione dell’eredità; nondimeno, il principe ne parlava adesso direttamente al coerede, gli comunicava i propri disegni. Avevano dato a intendere ai legatari che erano stati trattati male dalla madre, ma la dimostrazione del contrario sarebbe stata facile e pronta. Già, né Ferdinando né Chiara davano ascolto ai sobillatori; la stessa Lucrezia si sarebbe subito convinta del proprio torto. Quindi, per amore della pace, per mettere in chiaro ogni cosa, quantunque avessero ancora tanto tempo a pagar le sorelle, non era meglio togliersi al più presto quel peso di su le spalle? Avrebbero fatto un poco di economia per raccogliere le sedicimila onze occorrenti, giacché se Lucrezia doveva averne diecimila, a Chiara ne toccavano soltanto sei, dovendosi sottrarre le quattro da lei «avute» nel maritarsi. Prima, però, bisognava pagare i creditori, metter tutto in pulito. Frattanto, per guadagnar tempo, potevano intendersi loro due, circa la divisione. E a nessuno di quei ragionamenti del fratello, Raimondo trovava nulla da obiettare. «Va bene, va bene,» era la sua risposta.

      In mezzo a questa pace, piombò un bel giorno don Blasco da Nicolosi, a cavallo a un gigantesco asino della Pantelleria. Scappato con tutto il convento, il monaco non aveva messo fuori neppure il naso, nelle prime settimane, per paura di prendere il colera con l’aria che respirava; ma visto che per la campagna prosperavano uomini e bestie, rassicuratosi sul pericolo del contagio, udito finalmente che al Belvedere facevano baldoria, non stette più alle mosse. Arrivò lì, fra colazione e desinare, annunziandosi con grandi vociate perché nessuno gli apriva il cancello; visto poi il principino che gli veniva incontro con una bacchetta in mano la quale spaventava la cavalcatura, gridò al ragazzo, come se volesse mangiarselo: «Vuoi star fermo, che il diavolo ti porti?» e entrò finalmente nella villa esclamando: «Non c’è nessuno, qui dentro?… Che stillate?…» Al principe che voleva baciargli la mano, spiattellò: «Lascia stare queste smorfie…» e senza salutar nessuno, lo prese pel bottone dell’abito, lo trasse in disparte e gli domandò a bruciapelo:

      «È vero che tuo fratello si giuoca la camicia che ha indosso? Com’è che puoi permettere una cosa simile?»

      «Vostra Eccellenza non conosce Raimondo?» rispose il principe, stringendosi nelle spalle. «Chi può dirgli nulla? Provi Vostra Eccellenza a dissuaderlo…»

      «Io? Ah, io? A me importa un mazzo di cavoli di lui e degli altri! Questo è il frutto dell’educazione che gli hanno data! E quell’altra buona a nulla di sua moglie? Tutto il giorno a grattarsi la pancia piena? E tua sorella? E quei pazzi? E tuo figlio?…»

      Non risparmiò nessuno: i discorsi di Chiara e del marchese relativi al corredo del nascituro gli fecero montare la mosca al naso, le notizie dei Giulente lo imbestialirono; ma quel che gli fece perdere il lume degli occhi fu la lettura del Giornale di Catania portato dal principe di Roccasciano nel pomeriggio, quando cominciarono a venire le prime visite. Subito dopo il bollettino del colera si leggeva in quel foglio: «La generosità dei nostri cospicui patrizi non poteva mancare, in tempi tanto calamitosi, di venire in soccorso della sventura. L’Illustrissimo don Gaspare Uzeda duca d’Oragua, benché lontano dai suoi concittadini, pure ha fatto tenere al nostro Senato la somma di ducati cento da distribuirsi in soccorso dei più bisognosi…» Cento ducati buttati via, per soccorrere i bisognosi? Dite piuttosto per fregola di popolarità! Cento ducati buttati a mare, quasi che quella bestia avesse molto da scialare? A furia di largizioni un bel giorno avrebbe battuto il… capo sul lastrone, come meritava la sua sciocchezza: bestia, bestione, tre volte bestionaccio!… Il monaco era talmente fuori della grazia di Dio, che quando Roccasciano gli chiese notizie di suo nipote don Lodovico, si voltò come una furia:

      «Di che nipote m’andate nipotando?… Non li conosco!… Li rinnego tutti quanti!…» E preso anche quest’altro pel bottone della giacca, gli gridò

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