I Vicere. Federico De Roberto

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I Vicere - Federico De Roberto

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giorno dopo ci fu la visita del Priore. Arrivò in carrozza, riposato e sereno: salutò ed abbracciò tutti, volle entrare nella camera dov’era spirata la principessa, parlò della pestilenza attribuendola al corruccio del Signore per le nequizie dei tempi. Tutti lagnavansi dell’ostinata siccità, perché in tre mesi di torrida estate non era caduta una goccia d’acqua: egli riferì d’aver disposto un triduo, a Nicolosi, e una processione per impetrare la pioggia; altrettanto consigliò che facessero al Belvedere.

      «Non bisogna stancarsi di pregare l’Altissimo. Solo la preghiera e la penitenza potranno indurre la Divina Clemenza a perdonare i peccatori.»

      Poi annunziò che la cugina Radalì gli aveva scritto per avvertirlo che, appena cessato il colera, voleva mettere il secondogenito Giovannino al Noviziato: provvedimento lodevole poiché, col marito in quello stato, la povera duchessa non poteva badare all’educazione di entrambi i figliuoli. Il principe disse che anch’egli forse avrebbe fatto altrettanto per Consalvo. La principessa chinò gli sguardi a terra, non osando replicare, ma non potendo soffrire di esser divisa dal suo bambino.

      Così zio e nipote tornarono a venire, soli, in giorni diversi, incapaci di stare insieme, come cani e gatti. Però tutti riconoscevano che la colpa era di don Blasco: don Lodovico, con la sua natura veramente angelica, non avrebbe chiesto di meglio che far la pace; quell’altro invece non gli perdonava ancora l’assunzione al priorato. Comunque, la scissura era dispiacevole: gli amici di casa, i frequentatori del convento ne parlavano con dolore. Non ne parlava affatto fra’ Carmelo, il quale venne anch’egli a far visita alla principessa ed a portarle le prime nocciuole e le prime castagne. Non voleva parlare della nimistà tra zio e nipote per amore della buona fama del convento, per rispetto ai Padri che, a suo giudizio, erano tutti buoni e bravi egualmente; ma in modo particolare per la venerazione che portava ai due Uzeda. Quei suoi sentimenti comprendevano tutta la parentela. Quando la principessa, in cambio della frutta che egli recava, gli faceva apprestare uno spuntino, il frate, sparecchiando rapidamente, esaltava la nobile casata, casata di signoroni come ce n’eran pochi. E la principessa gli voleva bene pel bene che egli dimostrava al piccolo Consalvo, per le carezze che gli faceva, per gli speciali regalucci che gli portava, singolarmente perché, narrandogli il Noviziato degli zii don Lodovico e don Blasco, gli diceva:

      «Ce n’è stati tanti degli Uzeda, a San Nicola! Ma Vostra Eccellenza non l’avremo! Vostra Eccellenza è figliuolo unico, e non lo metteranno certamente al monastero!…»

      Tutti i parenti, invece, tranne Chiara, che se avesse avuto un figliuolo se lo sarebbe cucito alla gonna, erano dell’opinione del principe, che per l’educazione e l’istruzione del ragazzo convenisse mandarlo fuori di casa. Don Blasco specialmente, alle monellate del pronipote, all’indulgenza della principessa, vociava: «Ma come cresce, cotesto squassaforche!… Che educazione è questa qui!…» Donna Ferdinanda, quantunque giudicasse soverchia ogni istruzione, pure riconosceva anche lei che mettere il ragazzo in un nobile istituto sarebbe stato secondo le tradizioni della casa: tanto il collegio Cutelli quanto il Noviziato benedettino avevano visto molti di quegli antenati di cui ella leggeva e spiegava al nipotino la storia. Quando Consalvo era stanco di molestare le persone e le bestie, se ne veniva infatti dalla zitellona e le diceva:

      «Zia, vediamo gli stemmi?»

      Gli stemmi erano l’opera del Mugnòs, illustrata con le armi delle famiglie di cui il testo ragionava; e donna Ferdinanda passava intere giornate leggendola e commentandola al nipotino.

      Gli aveva già fatto un piccolo corso di grammatica araldica, spiegandogli che cosa volesse dire scudo partito e diviso, inquartato e soprattutto; mettendo il dito adunco sul rame che rappresentava quello di casa Uzeda gliene faceva ogni volta la descrizione perché la mandasse a memoria:

      «Inquartato, al primo e al quarto partito, d’oro all’aquila nera, linguata e armata di rosso, e fusato d’azzurro e d’argento; al secondo e al terzo diviso, d’azzurro alla cometa d’argento e di nero al capriolo d’oro; sopra il tutto d’oro con quattro pali rossi che è d’Aragona; lo scudo contornato da sei bandiere d’alleanza.»

      Poi gliene spiegava la formazione: la cometa voleva dire chiarezza di fama e di gloria; il capriolo rappresentava gli sproni del cavaliere. Lo stemma piccolo in mezzo al grande era quello dei Re aragonesi; gli Uzeda lo avevano ottenuto a poco a poco, non tutto in una volta: il primo palo al tempo di don Blasco ii.

      «Seruendo egli,» la zitellona leggeva nel suo testo, «all’inuitto Re don Giaime nella gverra ch’hebbe col conte Vguetto di Narbona e coi Mori nell’acquifto di Maiorca, non n’hebbe remvneratione uervna, perilche ritiratofi dal Real feruiggio fenne andò coi fvoi al fuo Stato, et iui uedendo che il Re mandaua vna groffa fomma di denari alla Reina, con dvcento caualieri fvoi uaffalli in un celato paffo fi pvofe, et agvatando i real carriaggi gli tolse i denari e quanto di fopra portauano, mandando a dire al Re ch’era lvi obbligato di pagar prima i feruiggi perfonali, e doppo fodiffar gli appetiti della Reina: ma fdegnatofi di qvefte attioni il Re moffe contra di Blafco graue gverra, che per l’interpofitione di molti baroni piaceuolmente fi disftaccò, et ottenne la baronia di Almeira nonché poteftà di poter imporre alle fve Arme vn palo roffo d’Aragona.» La zitellona gongolava, leggendo quella storia, e dopo averla letta la ripeteva al nipotino con linguaggio meno fiorito perché egli ne intendesse meglio il senso: «Bel Re, quello, eh? che si faceva servire dai suoi baroni e poi non voleva dar loro niente! Ma la pensata di don Blasco Uzeda non fu più bella? “Ah, non date niente a me che ho combattuto per voi, e pensate invece a mandar regali alla Regina? Aspettate che vi accomodo io!…”» La sua voce tremava di commozione nel ripetere la storia della rapina, e i suoi occhi furaci come quelli dell’antenato s’infiammavano della secolare cupidigia della vecchia razza spagnuola, dei Viceré che avevano spogliato la Sicilia.

      «E gli altri pali?» domandava il principino, che pendeva dalle labbra della zia meglio che se gli raccontasse le fiabe di Betta Pelosa e della Mamma Draga.

      La zitellona sfogliava rapidamente il libro e piombava sul passaggio cercato.

      «A cagion di ciò auuenne ch’il predetto Gonzalo de Vzeda, effendo eccellente cacciatore, fv inuitato dal Re Carlo di andare a caccia nei bofchi fvoi, il qvale inuito fv dal Gonzalo accettato, e mentre ognvno fi procacciaua e’l Re medefmo di fegvire i Daini, Cinghiali, e Lepri, andò folo il Re appreffo vn groffo cinghiale, il quale aftvtamente fi trattenne nel corfo, ma perché il cauallo del Re fvriofamente di fopra gli correua, nel paffar impedito da quello, cafcò con tvtto il Re in vn fafcio per terra, il qvale reftò con vna gamba di fotto di cauallo, uedendo ciò il cinghiale, f’auuentò fopra il Re per vcciderlo, il qvale per non hauerfi potvto difbrigare fi difendeua folamente con vn pvgnale, e ne reftaua fenz’altro morto fi non che auuedvtofi da lvnge Gonzalo del pericolo del fuo Re, corfe per soccorrerlo, et al primo incontro vccife il cinghiale, e scendendo poi da cauallo, l’aivtò poi a forgere e’l fè montar fopra il fuo cauallo, e tvtta via il Re ringratiandolo e lodandolo il chiamò: “Bon figlio!” perilche fvrono poi fempre i fignori di Vzeda chiamati dai Regi Siciliani col titolo di confangvinei, e portarono fovra l’arme l’Arme Regia di Aragona con tutti i fuoi poteri, come in effetto al prefente fpiegano, dicendo anche il cronista madrileno: “Los feruicios de los Vzedas fveron tantos, y tan buenos que por merced de los Reyes de Aragona hazian la mefmas armas que ellos…”»

      Chi poteva più arrestare donna Ferdinanda, una volta cominciato? Ella non aveva un uditore più attento del ragazzo, gli voleva bene appunto per questo, giacché gli altri parenti le prestavano un orecchio distratto, badavano alle loro «sciocchezze», o lavoravano ad offuscar lo splendore della casa, come quel volpone del duca amoreggiante coi repubblicani, come quella pazza da legare di Lucrezia che non voleva smetterla d’aspettare al balcone il passaggio del Giulente!…

      Solo fra tutti don Eugenio, quando non lavorava alla memoria per disseppellire la nuova Pompei, assisteva alla lettura del Mugnòs, citava altri storici della famiglia. Allora fratello e sorella passavano a rassegna il lungo

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