Il re del mare. Emilio Salgari

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Il re del mare - Emilio Salgari

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pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini.

      – Signore! – gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore, – noi ci arrostiamo.

      Yanez alzò le spalle.

      – Non posso fare nulla io, – rispose poi, colla sua calma abituale.

      – L’aria diventa irrespirabile.

      – Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni.

      – Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l’alto corso.

      – Lassù non farà più fresco di qui, mio caro.

      – Dovremo perire così?

      – Se così è scritto, – rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta.

      Si rovesciò sull’affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante: – Bah! Aspettiamo!

      Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti.

      Yanez si era alzato.

      – Come diventano noiosi questi dayaki! – esclamò.

      Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d’acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell’immensa tenda, guardò verso la riva.

      Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perchè osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino.

      Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell’uomo, che pareva avesse dell’acqua agghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche.

      – Ah! Miserabili! – gridò. – Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, Tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni!

      Fu un po’ rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l’incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro.

      Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilatarsi.

      – Potesse essere caduto anche il pellegrino! – mormorò Yanez. – Quel furbone si sarà purtroppo ben guardato dall’esporsi ai nostri tiri.

      Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornata a bordo nel momento in cui gli alberi costeggianti il fiume prendevano pure fuoco.

      – L’hai spezzata la catena? – gli chiese.

      – Sì, capitano Yanez.

      – Sicchè il passo è libero.

      – Completamente.

      – Il fuoco scema verso l’alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso, – mormorò Yanez. – Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checchè debba succedere, partiamo.

      La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall’uragano di fuoco che l’aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia.

      Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna.

      Il pericolo quindi che il veliero s’incendiasse, era ormai evitato.

      – Approfittiamo, – disse Yanez. – L’aria comincia a diventare un po’ più respirabile e la brezza è sempre favorevole.

      Fece togliere l’immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, accecando e facendo tossire gli uomini.

      Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati.

      Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata.

      I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere.

      Forse l’incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata.

      – Non si scorgono più, – disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. – Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l’imbarcadero! Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti.

      – Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone.

      – Eppure nessuno glielo ha detto.

      – Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto o ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all’uomo che vi fu mandato.

      – Che sia così?

      – Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna.

      – Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! – esclamò Yanez. – Giacchè i dayaki ci lasciano un po’ di tregua e l’incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po’ di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino.

      – Se parlerà!

      – Se si ostinerà a rimaner muto, m’incarico io di fargli passare un brutto quarto d’ora. Vieni, Tangusa.

      – Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora.

      In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procurategli dalle compressioni energiche di Sambigliong.

      Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi.

      Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell’addormentato, poi gli alzò le braccia ripiegandole

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