La tigre della Malesia. Emilio Salgari

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La tigre della Malesia - Emilio Salgari

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barricata sfondata, il timone infranto, e i remi furono schiantati assieme alle murate e ai banchi. L’acqua cominciò a penetrare nella stiva; i remiganti abbandonando i feriti bestemmianti e dibattentisi fra il liquido elemento che li affogava, salirono sul ponte cosparso di rottami disperdendosi dietro le barricate, cercando sostenersi con un inefficace fuoco di moschetteria. In meno di cinque minuti un terzo erano stati sventrati dall’uragano di ferro.

      Sandokan solo, cui pareva un genio infernale miracolosamente proteggesse, rimaneva impassibile fra quel turbinio di mitraglia che sdrusciva il legno affondante. In piedi a poppa, con un remo in mano e la scimitarra fra le labbra, gettava di quando in quando una specie di ruggito soffocato come la tigre della Malesia che si vede presa dai cacciatori.

      La partita era perduta; impossibile resistere a quel vulcano irrompente senza un pezzo d’artiglieria. Non restava che morire, ma morire onoratamente sul ponte del nemico dopo di aver venduta ben cara la vita. Dodici soli uomini ancor rimanevano sul ponte frantumato del prahos che coi fianchi aperti se ne andava a picco, ma dodici uomini assetati di sangue, guidati da un capo il cui valore era popolare in quei mari, e che valevano ancora i quaranta partiti da Mompracem.

      – A me, miei pirati! – esclamò Sandokan, fino allora rimasto muto.

      I dodici combattenti cogli occhi stravolti, i pugni chiusi come tenaglie attorno alle armi, facendosi scudo coi cadaveri dei compagni lo raggiunsero a poppa dove manovrava ancora al remo. Tre o quattro feriti che bestemmiavano sotto i rottami, vomitando torrenti di sangue a ogni scossa, si sforzarono di ubbidire ancora alla voce del capo; essi caddero ai piedi dei rimasti urlando come tigri.

      – All’abbordaggio! Vendetta! Vendetta!

      – Ah! cane di un nemico! – esclamò un Daiasso, mentre una palla gli troncava una mano.

      Il piroscafo avventando fiancate sopra fiancate sul prahos sdruscito che non avea più l’apparenza di un legno, era allora a soli venti metri da poppa e proseguiva la corsa per affondarlo col suo sperone. Sandokan si aggrappò al remo con ambe le mani.

      – Lancia un grappino! – esclamò egli virando di poppa per evitare l’urto. Il piroscafo era a pochi passi distanti e cercava alla sua volta di virare spazzando il mare a tribordo; le sue onde giungevano fino al prahos che rollava penosamente, e sul ponte del quale i pirati moschettavano i marinai delle artiglierie per nascondere l’audace manovra.

      Di repente avvenne un cozzo sul babordo seguito da uno scricchiolio sinistro; il prahos si piegò a tribordo imbarcando le prime onde che si precipitarono fischiando nei boccaporti.

      – Lancia! Lancia! – urlò Sandokan abbandonando il remo ed afferrando la scimitarra.

      Il grappino giunse fino ai pennoni del trinchetto e vi si infisse fra le gomene. Il prahos che affondava virò di bordo seguendo il piroscafo che accelerava la via. Sandokan si aggrappò come una scimia alla gomena.

      – A bordo! A bordo! – urlò egli cercando dominare colla voce il crepitar della moschetteria.

      Quel comando bastò. I pirati aiutandosi a vicenda, aggrappandosi su per gli sportelli delle batterie, giungono alle murate e si scagliano sul ponte come una banda di affamati lupi, ancor prima che il nemico abbia a respingere l’audace invasione.

      – Ammazza! Ammazza! – urlò Sandokan precipitandosi fra i combattenti.

      I primi che si parano dinanzi cadono sotto i suoi colpi ed i suoi uomini lo seguono seminando la via di cadaveri. Si scagliano sui cannoni massacrando gli artiglieri, urlano, si dimenano, tempestano colpi a diritta e a manca valendosi dell’oscurità per accrescere la confusione, poi simili a tigri, sbaragliati gli uomini di prua, si gettano sul ponte a testa bassa.

      – Ammazza! Ammazza! – urlava Sandokan agitando la scimitarra insanguinata fino all’elsa.

      Il tamburo batteva la carica. L’equipaggio dell’incrociatore, sbandato e smarrito per un istante, si era raccozzato a poppa attorno ai comandanti e si precipitava innanzi caricando alla baionetta mentre la moschetteria degli uomini installati sulle coffe cominciava a mordere sibilando fra gli attrezzi. Non vi era né da arrestarsi né da dare indietro. I pirati ridotti a nove, ma diventati nove leoni, si gettano coraggiosamente sulla punta delle baionette e intavolano a mezzo ponte una lotta micidiale, cercando sfondare quella muraglia umana per giungere alla Santa Barbara e far saltare con essi la nave.

      Sono uno contro dieci, ma in quel momento non si contano. Avventano colpi disperati, troncano braccia e aprono teste, urlano per ispargere maggior terrore nelle file nemiche, cadono, indietreggiano, si avanzano come le onde del mare, si aggrappano ai combattenti dilaniandoli coi denti e colle unghie, facendosi scudo coi corpi dei cadaveri; perdono le armi infrante ma strappano quelle dei nemici incalzanti e ricominciano l’omerica lotta fra i gemiti dei feriti.

      Il valore doveva cedere al numero. Moschettati sopra, sciabolati a tergo, ributtati dinanzi, avviluppati da un nemico dieci volte meglio armato e che diventava ognor più numeroso, muoiono vendendo cara la vita, ma muoiono. Sei uomini cadono trafitti in meno di venti secondi.

      Sandokan e gli altri, coperti di ferite colle scimitarre in pugno sono costretti a retrocedere dinanzi quella barriera irta di armi; facendosi strada fra i moribondi, si precipitano a prua tentando con uno sforzo disperato d’arrestare quella valanga di gente col cannone.

      A mezza via Sandokan rotola sul ponte insanguinato con una palla nel petto. Gettò un ruggito di dolore. I suoi uomini gli si stringono d’attorno.

      – Ammazza! Ammazza! – urlò ancora il ferito e sollevandosi con uno sforzo disperato si preparò a far testa al nemico che correva all’assalto colla baionetta.

      L’urto fu terribile. I tre pirati, che si erano gettati dinanzi al loro capo facendo scudo coi loro corpi, caddero fulminati. Ma non così avvenne della Tigre della Malesia miracolosamente salvata dai suoi prodi.

      Il formidabile uomo gettando il suo urlo di guerra spaccò la testa al primo uomo che gli si parò dinanzi, poi gettando da un lato l’arma seminfranta, abbrancando un marinaio e sollevandolo con forza erculea malgrado la ferita che mandava fiotti di sangue, si avventò contro una delle murate. Frantumare la testa del poveretto con una terribile stretta, scavalcare le murate e precipitarsi in mare prima che le baionette l’avessero toccato, fu per lui l’affare di un lampo.

      Ma un tale uomo, dotato di una energia sovrumana e del coraggio della tigre, quantunque ferito e spossato, non doveva sì facilmente morire.

      Mentre il piroscafo proseguiva la sua via trasportato dalle ultime battute delle ruote egli con un colpo di tallone risalì silenziosamente a galla, e rattenendo con ferrea volontà i gemiti che gli strappava la ferita al contatto dell’elemento corrosivo, si mise a nuotare come un pesce verso l’est senza lasciare traccie, senza destar attenzioni e con tutta la velocità di cui era capace un marinaio come lui. Il legno da guerra virava allora trecento passi lontano. Esso si avanzò descrivendo un gran cerchio attorno al luogo ove si era inabissato il pirata, coll’intenzione di tagliarlo in due collo sperone. Non bisognava lasciar vivere uno di quegli uomini di una razza maledetta, che durante dodici ore di una lotta sanguinosa aveva tenuto in scacco uno dei più valorosi legni della marina inglese.

      Ma Sandokan, se il legno lo cercava attivamente, egli era ben deciso di sfuggire, di tutto tentare per guadagnar la costa che non doveva essere gran fatto lontana e meditar di là una strepitosa vendetta. Egli si era arrestato immerso per quattro quinti, protetto dall’oscurità, rannicchiato quasi su sé stesso nel liquido elemento a lui tanto famigliare senza gettare un sospiro, senza fare un gesto, senza movere occhio. Galleggiava come un rottame abbandonato pel quale si poteva prenderlo se fosse stato scorto.

      Il

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