La tigre della Malesia. Emilio Salgari
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Читать онлайн книгу La tigre della Malesia - Emilio Salgari страница 19
– Via di qua… via di qua! – urlava egli in preda al delirio e alla febbre. – Che volete voi, giacche rosse… su questa terra?… Via da questi mari… sono miei! Largo alla Tigre… largo ai pirati di Mompracem… largo ai padroni di questo mare… essi berranno il vostro sangue… essi succieranno le midolle delle vostre ossa… berranno nei vostri teschi… arderanno le vostre navi… le terre, le città, i villaggi! Che volete voi? Non avete terre in vostra patria?… ladri, avvelenatori di popoli… via di qua! via di qua!
Così parlando, il pirata si rotolava fra i cespugli mordendo la terra, strappando le radici colle unghie e coi denti. Urlava come una belva feroce, si rizzava sulle ginocchia, si batteva il capo, si torceva le braccia, stritolava i cespugli in una potente stretta. Egli credeva di aver dinanzi a sé degli Inglesi, e mordeva credendo mordere i loro crani.
– Io battuto?… La Tigre risorgerà!… vi abbrucerà col solo ruggito… vi disperderà, fossero pur cento leoni contro essa!… sangue di Maometto; io soffro per loro… sulla terra di loro… ma la pagheranno… aspettate, aspettate… vedrò i vostri volti al balenar dei cannoni! Del sangue, del sangue io ho sete… datemi del sangue di loro… traetelo dalle loro vene… datemi delle carni… carni di loro… che palpitino sotto le mie dita… datemele, io le divorerò!… Sono ferito… la palla avvelenata di loro suscita un vulcano nel mio petto… la sento ardere… ma guarirò, voglio vivere…, capisci leone d’Inghilterra… voglio vivere! voglio vedere la Perla di Labuan! Ah! maledetta Perla, fosti la mia ruina!
Uno scroscio di risa diaboliche irruppe dalle sue labbra perdendosi nel fondo delle foreste. Si arrestò colle mani contratte fra i capelli, fremente per la febbre, divorato dalla sete. Pareva che un fuoco immane gli ardesse nel petto, che la terra su cui posava fosse il fondo di una caldaia in ebollizione. Stette alcuni minuti in silenzio, poi ripigliò i suoi pazzi discorsi, destando gli echi delle foreste, agitando le mani come per allontanare delle ombre invisibili, degli scheletri, dei fiumi di sangue.
– Via di qua, via!… Che volete, orribili ombre?… Via quei fantasmi, volgete altrove quegli occhi di fuoco… Essi mi divorano! Che volete voi, nudi scheletri dalle bianche ossa e dalle vuote occhiaie?… Che avete da gemere… che avete da fare crocchiar quelle dita e quei piedi?… Perché quelle costole spezzate, quelle ossa frantumate… quei teschi aperti… via, via! Non sono Sandokan io forse? Sangue… fiumi di sangue e monti di cadaveri… sempre sangue e fantasmi. Ah! Sei tu Patau… la palla di cannone ti ha infranto il petto… Ah! siete voi… tutti voi che ho ammazzato… andate, andate laggiù nella fossa… nella gran fossa delle giacche rosse. Non verrò! non verrò!
La notte fu orribile. Il pirata in preda alla febbre e al delirio, non sognò che fiumi di sangue dove cercava invano di spegnere la sete, schiere di fantasmi avvolti nei loro sudari bianchi, e i cui occhi si fissavano nei suoi, scheletri che danzavano attorno a lui facendo crocchiar le ossa e facendo udir diabolici scoppi di risa, e una processione di uomini di tutte le razze, gementi, urlanti, coi fianchi aperti, colle teste spezzate a gran colpi di scimitarra o di scure, colle membra troncate donde uscivano fiotti di sangue e coi corpi traforati, scarnati in mille guise da palle di cannone e da mitraglia.
Ma a poco a poco tutte quelle visioni, le une più spaventevoli delle altre, rappresentanti le vittime di lui, disparvero ed egli cadde in un profondo torpore, in una specie di sonno di cui ne avea tanto bisogno, ma che durò qualche ora. Quando si svegliò era ancora notte, ma era più calmo.
– Credeva bene di esser morto! – mormorò egli guardandosi attorno con un misto di spavento e di sorpresa.
Ricompose le fascie della ferita, state rimosse durante il delirio, poi udendo il lieve mormorar di un ruscelletto vi si trascinò e spense la sete. La febbre cessava a poco a poco e vi era da credere che all’indomani stesse assai meglio della sera.
Trovò un posto fra i cespugli dove si accomodò alla meglio a pochi passi dal ruscelletto, e aspettò pazientemente il mattino, cogli occhi fissi al levante spiando ansiosamente l’apparir di qualche chiarore che segnalasse l’aurora.
Le ore passavano lente lente quasi avessero raddoppiato la lunghezza abituale, là sotto quelle fitte foreste, dove l’oscurità era più fitta che mai. Il tempo passava con una lentezza spaventevole pel ferito, abbandonato senza risorse fra quegli alberi, fra atroci sofferenze. Contava minuto per minuto, più ancora, battito per battito.
Qual supplizio! Egli ruggiva in cuor suo, e ideavasi orologi ai quali faceva rotear le sfere; faceva volare nella sua mente il tempo, maledicendo la lentezza di quei minuti altre volte sì rapidi e bestemmiava contro il sole che non appariva mai. Al di sotto dei grandi alberi poi udivasi le urla delle fiere che vagavano in cerca di preda, altro supplizio non meno spaventoso, dove il ferito provava tutte le emozioni della paura malgrado il suo coraggio, quando quelle urla andavano avvicinandosi. Se fosse stato sano, se ne sarebbe bene infischiato di loro, ma sfinito di forze, quasi impotente di lottare, in quella pericolosa situazione, armato di un solo kriss, era ben altra cosa.
Le tigri, forse le ultime che scorrazzavano le foreste, ruggivano balzando nei cespugli o arrampicandosi sui rami per attendere la selvaggina all’agguato, a cui si univano le strida delle scimie accoccolate sulle più alte cime degli alberi, affannate a respingere quei potenti carnivori o a mettersi in salvo, e l’abbaiar dei cani vaganti e il grugnir dei babirussa o dei cignali scovati.
Sandokan prestava orecchio a tutti questi concerti, a quei differenti rumori, rattenendo i gemiti, immobile fra i cespugli, col kriss in mano. Non si inquietava che delle tigri, quei carnivori potenti che avrebbero potuto piombare su di lui e farlo a brani ancor prima che avesse a pensare a difendersi. Vi era da stare all’erta tutta la notte.
Le ore, lente lente, passarono alfine, dopo una notte passata fra il delirio e l’angoscia. La luna che scintillava al di sopra degli alberi, senza tramandar uno di quei bei raggi d’argento al di sotto, tanto era fitto il fogliame, cominciò a impallidir a poco a poco man mano che una luce biancastra dapprima e rossa un po’ più tardi compariva al levante e le stelle impallidirono con essa. Il pirata respirò; le tenebre se ne volavan via dinanzi alla luce. Il sole apparve come improvvisamente illuminando la foresta, facendo tacere tutti quei concerti notturni, penetrando anche nei più reconditi luoghi. Sandokan si scosse trascinandosi fino al rivoletto d’acqua, dove lavò la ferita sempre infiammata e sempre dolorosa, applicandovi nuove filaccie e radici masticate.
Era estremamente debole, ma la febbre era cessata, un segno infallibile per credere che la guarigione benché lenta incominciava. Egli risolse di compierla ad onta di tutti gli ostacoli.
Abbisognava del cibo per richiamare le forze e rinnovare il sangue, quindi la necessità di trovarne. Non aveva che un kriss, un’arma quasi inutile per atterrare la selvaggina che il ferito non avrebbe potuto raggiungere, ma se non poteva contare su di essa, poteva almeno contare sugli alberi fruttiferi, che in quelle foreste non mancano.
Labuan, quantunque sia un lembo di terra, gode la medesima feracità di Borneo, dalla quale pare sia stato staccato in seguito a qualche formidabile cataclisma. Tutti gli alberi della Malesia hanno i loro rappresentanti, senza dimenticare anche il velenoso upas che si mostra in qualche luogo non troppo recondito dell’isola.
Non manca né di sagù, né di magnifici artocarpi, né di cavoli palmisti, né di canne da zucchero, piante che possono dare un alimento, se non troppo sostanzioso, almeno salubre ed eccellente. Sandokan non ignorava ciò, e quantunque la ferita lo facesse sempre soffrire,