La tigre della Malesia. Emilio Salgari

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La tigre della Malesia - Emilio Salgari

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senza vederli, fra quelle erbe taglienti come tante lame flessibili, divenne rapida.

      Ebbe paura, lui, il pirata, Sandokan, la Tigre della Malesia, il cui solo grido avrebbe bastato per far fuggir mezza popolazione. Il delirio tornò ad impossessarsi di lui colla febbre, si credette inseguito e si mise a fuggire.

      – Qua… qua… giacche rosse! Sono io… Sandokan, la Tigre… sono io! – urlava egli.

      Precipitò la corsa senza sapere ove andasse, varcando ruscelli e cespugli, scalando alberi e attraversando paludi in miniatura, cadendo e risollevandosi come la sera precedente. Correva come un forsennato, invocando le giacche rosse colla spuma alle labbra, cogli occhi fuori dall’orbite. Volava incespicando ogni cento passi, non udendo più nulla attorno fuorché il celere martellar del cuore, senza provare i dolori della ferita, soffocati dal delirio.

      Quanta via percorse, non poté mai saperlo. Il fatto si è che si trovò d’improvviso dinanzi a una prateria solcata da un fiumicello scaricantesi in un ampio stagno, nel fondo della quale, in riva alle acque, sorgeva qualche cosa di nero che pareva una abitazione.

      Sostò un momento, anelante, senza forza di gridare, poi si precipitò nella prateria continuando la sua sfrenata corsa. Fece cento, forse duecento passi colla schiuma alle labbra, le mani nell’aria, poi rotolò come fosse fulminato al suolo e vi rimase immobile, irrigidito, lasciando sfuggir un ultimo gemito che si perdé fra le tenebre della notte.

      CAPITOLO VII. La Perla di Labuan

      All’indomani, dopo la corsa insensata della notte, quando tornò in sé, era chiaro. Il sole, appena appena sorto, illuminava la prateria, i lontani alberi della foresta, il ruscello, lo stagno, l’abitazione intravveduta la sera precedente e di più una mezza dozzina di uomini che curvi su di lui spiavano ansiosamente ogni suo movimento. Egli si stropicciò gli occhi e fece un gesto per fuggire.

      – Povero uomo! – esclamò una voce commossa, che, quantunque parlasse la lingua delle giacche rosse, non aveva quell’accento secco e imperioso che il pirata solea credere.

      Egli si scosse tutto. Credette di essere in preda a un sogno, tornò a stropicciarsi gli occhi, poi esaminò a uno a uno quegli uomini sempre curvi su di lui, che parevano interessarsi del suo stato.

      Cinque erano indigeni dai volti stupidi e insignificanti, il sesto un bianco. Se l’occhio non s’ingannava, pareva avesse una cinquantina d’anni. Alto, ben fatto, ma con quella rigidezza che è il distintivo particolare della razza anglo-sassone, poteva essere ancora un bell’uomo ad onta dell’età. Un volto simpatico, aperto, benché incorniciato da capelli rossi, occhi intelligenti, due mani aristocratiche anzi che no e delle braccia che dovevano esser dotate di una forza non comune. Vestiva semplicemente: un gran cappello bianco sul capo – una cupola circondata da un velo – una giacca di stoffa azzurra, pantaloni di pelle e lunghi stivali a risvolta completavano l’abbigliamento. Non vi era da ingannarsi sulla sua origine. Sandokan lo riconobbe per una giacca rossa, pure non tentò di fuggire. Comprendeva che una nuova fuga, un giorno ancora passato nelle foreste, avrebbe causato infallibilmente la morte. Era un Inglese che lo raccoglieva, meglio; il gioco non sarebbe riuscito più ridicolo. Un Inglese curare Sandokan, la Tigre della Malesia! Vi era ben da ridere; la storiella raccontata a Mompracem avrebbe senza dubbio furoreggiato.

      D’altronde, quell’individuo pareva un galantuomo. Lo avrebbe curato e nulla di più, come si cura un ferito trovato sulla via. Non lo conosceva, nessuno sapeva che egli avea approdato a quelle coste in seguito a una moschettata e ad una tremenda rotta. Le risorse non mancavano per farsi credere un onesto marinaio, caduto sotto il piombo dei pirati di Mompracem. Tuttavia, per ingannar meglio il valentuomo, cercò di rizzarsi come per fuggire.

      – Povero uomo! – ripeté la medesima voce. – Non movetevi, siamo amici. Verrete meco!

      – Lasciatemi! Lasciatemi! – esclamò Sandokan. – Non ho nulla… più nulla da darvi.

      – Al diavolo! Non siamo già pirati noi da derubarvi. Vi sembra che ne abbia il volto adunque? – disse l’Inglese sorridendo. – Orsù, calmatevi, nessuno vi torcerà un capello.

      Sandokan lo guardò mezzo diffidente e con l’occhio torvo, quasi volesse leggere nell’animo di quell’uomo.

      – Non siete dunque pirati, voi? – chiese egli con accento sì ingenuo da convincere un dayak stesso.

      – Non ve lo dissi? Andiamo, povero uomo, rimanendo all’aperto morrete. Io vi curerò.

      Sandokan, malgrado cercasse esser calmo, trasalì e strinse le pugna. Si avrebbe detto che fosse li li per ripigliar la fuga attraverso le foreste malgrado la ferita, ma si arrestò e chiuse gli occhi per nulla vedere, soffocando l’ira che gli saliva alla gola.

      – Dovete soffrire molto, ma cercherò di guarirvi – disse l’Inglese curvandosi su di lui e toccando la ferita.

      – Sì, che soffro! – esclamò Sandokan con voce sorda.

      A un cenno dell’Inglese, i cinque indigeni lo sollevarono con tutte le possibili precauzioni, e malgrado egli ruggisse in cuor suo, si lasciò trasportare a forza di braccia all’abitazione.

      Era dessa senza dubbio la miglior casa che sorgesse in Labuan dopo quella del governatore. Un vero palazzo di legno col tetto di zinco, dove le fenestre numerose, ma ben disposte avevano un po’ di architettura gotica, e dove i fregi non mancavano. Una veranda indiana girava attorno, rinchiusa da persiane dipinte a vivaci colori, e dove le piante arrampicanti, dividendosi in mille rameggi gli uni più bizzarri degli altri, avevano preso sede, avanzandosi ancora più sopra fino alle fenestre e ancora più in alto fino ai camini del tetto.

      Si elevava sulle rive dello stagno sopra il quale si passava con un ponte levatoio, e ai cui fianchi staccava sì solide stecconate, alte tre o quattro metri, indispensabili per quei luoghi frequentemente visitati dai pirati di Mompracem e delle Romades. Un gran giardino riboccante dei più bei e più preziosi alberi e dei più rari fiori stendevasi a perdita d’occhio al di là delle palizzate cosparso di piccoli chioschi chinesi, di gran graticci di filo di ferro entro ai quali garrivano i più graziosi uccelli della Malesia e munito del relativo padiglione dalle pareti verdeggianti ombreggiato da un colossale albero della canfora il cui tronco non sarebbe stato abbracciato da dieci uomini.

      Gli indigeni portando Sandokan che concentrato tutto nella sua ira nulla vedeva e nulla udiva, traversarono il ponte levatoio preceduti dall’Inglese e dopo esser passati per una fila di stanze arredate con eleganza, lo deposero in una di esse, ampia quanto mai, tappezzata in rosso, le cui grandi fenestre gotiche davano sul giardino.

      Il ferito fu disteso su di un letto e messa a nudo la ferita; l’Inglese la esaminò attentamente come un uomo che se ne intende. Vi fece passare sopra leggermente una spugna bagnata di acqua fresca, alleviando l’atroce dolore che pativa il pirata, vi applicò un cataplasma d’esca e un miscuglio di sostanze vegetali di cui il ferito stesso ignorava l’effetto e la provenienza, vi sovrappose delle filacce e fasciò il tutto con abile mano.

      – Non movetevi se lo potete, solo coricatevi sul fianco corrispondente al cataplasma e il capo alquanto rialzato – disse l’Inglese. – Non dite parole che potrebbero causarvi una debolezza estrema, dormite e non pensate che a guarire. D’altronde non avrete ad annoiarvi; vi presenterò io una graziosa infermiera che saprà rallegrarvi nei momenti di malinconia.

      Il ferito, facendo uno sforzo su sé stesso sorrise. Allungò la mano, poi ritirandola:

      – A chi dovrò dimostrare la mia gratitudine… per le cure avute?

      – A James Guillonk, capitano

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