La tigre della Malesia. Emilio Salgari

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La tigre della Malesia - Emilio Salgari

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tigre! – esclamò Sandokan come non comprendesse il significato di quella domanda.

      – E che, non usate cacciare la tigre voi, nella Malacca?

      – Sì… sì, è la mia passione – rispose il pirata.

      – Benone, amico mio. Domani caccieremo la tigre!

      CAPITOLO IX. La caccia alla tigre

      Durante tutta la sera Sandokan non si era fatto vedere, né da lei, né dal lord, accusando di provare un po’ di sfinimento e una violenta emicrania, il che non gli avrebbe impedito alla domani di trovarsi fra i primi a cacciare la tigre. Non era che una scusa per trovarsi solo; non vi erano emicranie di sorta per lui che non le aveva mai provate, né sfinimenti; sentivasi più forte che mai. Voleva esser solo, per prepararsi per la caccia cui egli riguardava ben sotto altro scopo. Era turbato dopo gli avvenimenti della giornata, che gli avevano aperto un nuovo avvenire, che l’avevano spinto su di una nuova via, che avevano cangiato la Tigre della Malesia, forse prossima a lasciare per sempre quei mari che aveva bagnati di tanto sangue.

      Aveva il fuoco nelle vene, non sapeva dominarsi più. Arrischiava l’ultima carta prima di precipitarsi perdutamente in mezzo a una nuova avventura, che per lui era la vita.

      Egli girò e rigirò attorno la stanza come una belva rinchiusa nella sua gabbia, cercando allontanare quella visione che lo seguiva passo passo nell’ombra, che gli sussurrava nuove parole, che lo affascinava suo malgrado: poi si arrestò, come poche ore prima, dinanzi alla fenestra che guardava sul giardino come in preda a un sogno, e guardò senza sapere il perché al di fuori.

      – Guarda – mormorò egli cercando rompere le tenebre che avvolgevano il parco. – Guarda! Qua la felicità, qua una vita nuova, qua lei e laggiù Mompracem, una vita d’avventuriere, una tempesta di ferro, del sangue, i miei uomini, il Portoghese! Quale di queste due vie? Tutto il mio sangue bolle, quando penso a quella fanciulla che non ho mai veduto nei miei sogni; il fuoco mi serpeggia nelle vene, entro le quali scorre piombo fuso! Si direbbe ch’io l’amo, che l’antepongo alla mia vita di uomo sanguinario. Il mio cuore rugge al sol pensiero che è figlia delle giacche rosse, ma sanguina al pensiero che io dovessi dimenticarla! Prima era il terror dei mari, prima non aveva mai provato emozioni, non aveva gustato che sangue e sangue… e ora, non gusto che lei, non respiro che l’alito di lei, non provo che emozioni per lei. Il mio mondo è lei!…

      Il pirata aprì la fenestra, aspirò l’aria fresca della notte. La notte era magnifica, stellata, una notte tropicale; egli sentì il sangue rimescolarsi, turbinargli, il cuore fiammeggiare. Con un balzo precipitò nel giardino ancor prima che potesse rendersi conto di quella mossa.

      Rimase incerto, ascoltando lo stormir delle fronde e il sibilar del sangue negli orecchi.

      – Se io fuggissi? – si chiese egli. – Se io frapponessi fra me e quella visione divina la foresta, poi il mare, poi… poi dell’odio, perché ha del sangue di loro! Ritornerei libero laggiù… senza nulla rimpiangere… senza farle conoscere che io l’amo di già, ancor prima che lei abbia ad amarmi!

      Sandokan fece alcuni passi come avesse preso una risoluzione movendo verso le mura del parco, poi s’arrestò come lo spavento l’avesse inchiodato al suolo. Gettò uno sguardo attorno, vide i grandi alberi che parevano messi là per spiarlo, vide quei fiori il cui profumo lo inebbriava, vide il tronco atterrato dove poco prima era seduta lei, vide su di esso la mandola poi qualche cosa di bianco. Fece un passo, due, poi dieci dirigendosi verso quel luogo col passo furtivo di un ladro.

      – Era là – mormorò egli con voce commossa. – Era là, quella giovanetta affascinante, era là che cantava ed io ero laggiù a udirla, ebbro, trasognato!… Se io non la vedessi mai più?… Se io non la udissi mai più?… Se fuggissi?…

      Egli girò nuovamente attorno lo sguardo e lo fermò sulla mandola, presso la quale vide un oggetto bianco. Egli si avvicinò come spintovi da una forza sopranaturale, senz’essere capace di staccare da esso gli occhi, e l’afferrò con mano convulsa.

      Era un fiore, una rosa dei boschi che la giovanetta s’era dimenticata. Il pirata l’ammirò a lungo come si ammira una cosa sacra, fiutò più volte il delicato profumo che esalava, la portò alle labbra, la baciò con appassionato trasporto. Stette un minuto, due, forse tre, così col fiore attaccato alle ardenti labbra, poi lo nascose nel petto e marciò dritto alle palizzate.

      – Andiamo – rantolò egli. – Tutto sarà finito.

      Egli si arrestò nel momento che stava per pigliare lo slancio e varcarle. Un singulto gli serrò la gola, un tremore lo prese. Egli nascose il volto fra le mani mugolando come una belva.

      – Ma no! Ma no!… – esclamò egli. – Non posso varcare questa cinta, non posso allontarmi da questi luoghi, nol posso, no, nol posso. Che s’inabissi Mompracem e i pirati, io resterò!…

      Egli si era allora messo a correre pel parco volgendo le spalle alle palizzate, quasi avesse paura di dover varcarle, e come avesse paura di pentirsi di quelle parole uscitegli dalle labbra, che erano per lui una sentenza.

      Rientrò nella stanza due ore dopo, trafelato per la corsa, affranto, tutto in sudore, più cupo che mai. Quando, dopo di aver a lungo esitato, si trovò ancora in quella stanza dalla quale era fuggito coll’intenzione di non rivederla mai più, un profondo singhiozzo gli uscì dalle frementi labbra.

      – Ah! – esclamò egli con tono di rimpianto. – La Tigre della Malesia tramonta!…

      Egli passò la notte senza sapere il come, senz’essere capace di chiudere occhio. Solo verso il mattino poté addormentarsi, ma fu un dormire di poche ore, poiché fu improvvisamente svegliato da un nitrire di cavalli, da un abbaiar di cani e da un vociare d’uomini.

      Si vestì in un lampo, aprì la fenestra con precauzione per non essere visto, e guardò.

      Sei o sette cavalieri, armati di fucili, di pistole e di coltelli a doppio taglio, erano entrati nel parco accompagnati da un branco di grossi cani. Sei, a giudicarli dalle vesti e dal fare, erano coloni dei dintorni, il settimo era un bello ed elegante ufficiale di marina, dal portamento altero e aristocratico. Sandokan guardò quest’ultimo con particolare attenzione, e senza sapere il perché, provò una puntura al cuore, provò un sentimento quasi direi di gelosia e d’invidia.

      La sua fronte nell’ammirarlo s’aggrottò a più riprese e le labbra si sporsero sdegnosamente. Ma non aprì bocca e rientrò proprio nel momento che il lord bussava alla porta gridando:

      – In piedi, amico mio, in piedi che i cacciatori sono arrivati. Non bisogna dormire quando si vuol scovare la tigre.

      Sandokan si affrettò ad aprire.

      – Ah! siete voi, milord? – diss’egli con voce calma.

      – E chi potrebbe essere mai? Su, spicciatevi che i cavalli sono pronti, i cani abbaiano impazienti di mordere il pelo della belva, e i battitori sono in campagna. Il sole fra pochi minuti si leverà.

      – Sono pronto, milord. E vostra nepote rimarrà alla villa sola? – chiese Sandokan arrestandosi nel momento che stava per varcare la porta della stanza.

      – Che dite mai? Ha nelle vene del sangue di due razze. Non ha paura di una tigre, dovesse pur esser la più terribile della Malesia. In fede mia, che non se ne consolerebbe mai più che la si avesse a lasciar sola nel momento che tutti gli altri cacciano nelle sue foreste; di più, vi dirò, che arde dal desiderio di vedere un Malese a cacciar una belva sì pericolosa.

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