La tigre della Malesia. Emilio Salgari
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– Addio, Sandokan. Che la buona stella ti guidi.
I due pirati si abbracciarono, come solevano far sempre quando intraprendevano una spedizione, dove non erano sicuri di tornar sempre. Poi la Tigre, colla testa alta, la carabina in mano, l’occhio acceso e le labbra contratte a un feroce sorriso, s’allontanò. Salì in una ricca imbarcazione, e in pochi colpi di remo raggiunse il suo prahos.
Le âncore, in meno che nol si dica, furono strappate dal fondo e le grandi vele furono sciolte al vento da una squadra di diavoli color verde-oliva o nero fuliggine, che parevano dotati della potente agilità delle scimie.
– Rotta per le Romades! – si accontentò di dire Sandokan, poi andò sedersi a prua sulla culatta del suo cannone favorito, con lo sguardo acuto, che avrebbe sfidato quello d’un’aquila, rivolto al sud.
I due legni, coi quali la Tigre stava con la sua solita intrepidezza per intraprendere la caccia dei mercantili e di poi la spedizione sulle pericolose coste di Labuan, appartenevano a quella specie conosciuta nella Malesia sotto il nome di prahos o di pralì.
Erano due legni bassi di scafo, di forma allungata e snella, più alti a poppa che a prua, e provvisti sottovento di bilanciere per impedire che una raffica improvvisa li rovesciasse e sopravento di un largo sostegno di bambù per la zavorra.
Portavano vele della lunghezza di quaranta e più metri di forme allungate, composte di striscie di grossa tela di cotone dipinta, con pennoni tesi obliquamente, fatti di bambù strettamente legati con fibre di rotang, e alberi triangolari, grossi, un lato dei quali veniva formato dalla coperta del prahos. Avevano doppi timoni per meglio dirigerli, un casotto sul ponte chiamato attap, l’attrezzatura tutta di bambù, di rotang e di fibre di gamuti, e grossi cannoni a prua e spingarde dal lungo tiro, per poter gareggiare colle navi meglio armate.
Al comando di Sandokan, i due legni pirateschi si affrettarono a prendere il largo descrivendo curve con matematica precisione per evitare le scogliere che fanno pericolosa corona all’isola, e bruschi angoli per non urtare contro le secche e i banchi madreporici.
Una volta usciti da quel laberinto, quantunque il vento fosse un po’ debole, misero la prua al sud, guizzando e rimbalzando come palle elastiche sulle onde, filando senza darlo a vedere tre e quattro nodi all’ora, rapidità sufficiente per poter raggiungere i legni mercantili, che dovevano camminar assai meno.
Tutti i pirati, benché la distanza fosse ancora ragguardevole dalle Romades, e nessuna vela apparisse all’orizzonte, si misero in osservazione, i più agili a cavalcioni dei pennoni per abbracciare maggior spazio e gli altri in piedi sulle murate, aggrappati alle sartie e alle griselle.
Quaranta cannocchiali viventi, in pochi minuti, scrutavano i trentadue punti della bussola, spiando la preda non solo, ma anche il fumante incrociatore, verso il quale avevano qualche apprensione.
Non era nemmeno da supporsi che avessero paura di esso o che temessero un incontro, malgrado la sproporzione delle forze. Avrebbe bastato che si fosse fatto vedere e che la Tigre ordinasse l’abbordaggio per espugnarlo. Solo avevano qualche timore che si unisse a qualche altro legno, e che sbarcasse improvvisamente soldati su qualche punto mal guardato di Mompracem.
Anche la Tigre della Malesia pensava all’incrociatore, ma non si preoccupava tanto.
Pure, volendo assicurarsi di ciò che pensavano i suoi uomini sulla probabile presenza di quel legno, chiamò Patau. Il Malese fu lesto ad accorrere.
– Credi tu – chiese la Tigre, – che quel maledetto negro non ci abbia ingannati?
– E perché avrebbe voluto ingannarci? – disse il Malese. – Nini Balu è una creatura, che non sarebbe capace di trattare colle giacche rosse(). Sono sicuro, per mio conto, che il sospiratore affannato spii l’isola colla speranza di ornare le sue antenne di impiccati.
Le labbra della Tigre si piegarono a una smorfia, che voleva essere un sorriso.
– Credi tu che i nostri uomini si preoccupino della presenza di questo legno?
– Oibò – esclamò Patau con un’alzata di spalle. – Per preoccupare i tigrotti di Mompracem, guidati dalla Tigre della Malesia, occorrerebbero cento navi, e ancor queste sarebbero poche.
– Vedete, capitano. Alla sola idea che quel sospiratore affannato ci spia, tutto il mio sangue bolle e quello dei miei compagni fuma. Quando l’incontreremo, il sangue diverrà fuoco, e voi sapete ciò che vuol dire. Succederà un massacro e nella macchina getteremo a bruciare cadaveri anziché carbone.
– Lo so, Patau, che un dì o l’altro, ne ho la certezza, ci capiterà alle spalle. Ci spia, ma freme al mio nome, e trema dinanzi alla mia potenza. Guarda: forse ha gettato dei liquori fra gli indigeni di Mompracem, forse sa che io ho abbandonato il mio covo, e forse non ignora su quale terra io muova, ma non ardisce inseguirmi. Quaranta uomini, quaranta tigrotti gli fan paura e si tace!
– È roba vecchia, capitano. Quelle giacche rosse non sono forti che coi deboli. Non avete udito dire come siano sbarcati a Labuan? Tiravano cannonate per misurarsi con quei miserabili selvaggi, che non avevano mai fiutato polvere di cannone.
– Lo so – disse la Tigre sordamente. – Ma vorrei essere stato io laggiù coi miei prahos. L’Iris non sarebbe più tornato su queste coste, e il suo comandante Rodney Mundy sarebbe andato a trovare le madrepore appeso al suo ponte di comando.
– Ah! – esclamò il Malese con tono di rimpianto. – Bisognerebbe andare un dì o l’altro a Labuan. Sarebbe il mio sogno.
– E chi dice, Patau, che io non vi andrò? Uno strano capriccio mi ha preso, Malese mio: voglio andar a vedere la Perla.
Il Malese fece un salto indietro.
– Per Allah! – esclamò egli sorpreso. – Vi avrebbe toccato il cuore questa Perla?
Una nube oscurò la fronte della Tigre della Malesia.
– Ah! – ghignò Sandokan. – Credi tu che il mio cuore, inaccessibile a ogni passione, abbia perduto la sua invulnerabilità?
– No, capitano. Ma dicesi che questa Perla sia così bella!…
– Le mie bellezze, Patau, se tu nol sai, non sono che le pugne, i fiumi di sangue, e i monti di cadaveri. La Tigre della Malesia non conosce altre bellezze.
La fronte di Sandokan s’aggrottò e la sua faccia prese una truce espressione. Volse bruscamente le spalle al Malese, e si mise a guardare attentamente il mare, senza aggiungere altra parola.
I prahos continuarono la loro caccia, veleggiando sempre verso le Romades, accelerando la corsa pel vento che andava prendendo forza, guizzando come pesci, tagliando nettamente a prua le spumeggianti onde, che spruzzavano fino alla Tigre.
Man mano che la distanza scemava, tutti gli occhi dei marinai prendevano maggior potenza visiva. Le pupille si allargavano scrutando il meridionale orizzonte, e le mani si avvicinavano insensibilmente alle carabine, alle scuri e alle sciabole d’arrembaggio, quasi indovinassero prossima la presenza dei legni mercantili, mentre quelle fiere figure d’uomini parevano acquistare novella forza, novella ferocia, cento volte raddoppiata dal magnetico sguardo della Tigre.
E infatti i prahos mercantili, segnalati il giorno precedente, non dovevano essere gran fatto lontani. Se si erano arrestati alle Romades, il che poteva essere facile, dovevano apparire fra breve