Le meraiglie del Duemila. Emilio Salgari

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Le meraiglie del Duemila - Emilio Salgari

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non sono forse un inglese?» disse Brandok ridendo.

      Il dottore s’alzò, andò a prendere su una mensola una polverosa bottiglia che doveva contare un bel numero d’anni e la sturò, empiendo i due bicchieri.

      «Medoc del milleottocentoottantotto» disse. «Dopo ventiquattr’anni di riposo deve essere diventato eccellente. Alla nostra risurrezione nel duemilatre!» esclamò, alzando il bicchiere. Lo svuotò di un fiato, stette qualche minuto soprappensiero, poi disse:

      «Quanto possiedi, James…?».

      «Cinque milioni di lire.»

      «In cartelle dello Stato?»

      «Sì.»

      «Devi cambiarle in oro, amico mio. Fra cent’anni quelle cartelle potrebbero non avere più valore alcuno, mentre invece l’oro rimane sempre oro, sia che si trovi in verghe od in pezzi da venti lire. Io posseggo soltanto ottantamila dollari, tuttavia spero che mi basteranno, anche fra cento anni, per non morir di fame. Sono già a posto nel piccolo sotterraneo che ho fatto scavare sotto la mia tomba, in una cassaforte, colla chiave a segreto.»

      «E sei certo che i nostri corpi si conserveranno?»

      «Meravigliosamente» disse il dottore. «Ci conserveremo come fossimo carni gelate.»

      «Geleremo?»

      «Sì.»

      «Chi metterà del ghiaccio nella nostra tomba?»

      «Non ce ne sarà bisogno. Ho scoperto un certo liquido che abbasserà la temperatura della nostra tomba a 20 gradi sotto lo zero.»

      «E si manterrà?»

      «Finché non sfonderanno la nostra cupola di cristallo per farci risuscitare. Staremo benissimo là dentro, te lo assicuro. Ah! ecco quel bravo notaio; giunge a tempo per assaggiare il pudding della mia cuoca e per vuotare un bicchiere di questo delizioso medoc.»

      Nella stanza vicina aveva udito Magge che gridava:

      «È sempre in ritardo, signor Max! Cinque minuti ancora e non assaggiava più il mio pudding. Un’altra volta me lo farà bruciare».

      La porta del salotto s’era aperta fragorosamente ed il notaio era entrato con un passo così pesante, da far traballare le bottiglie ed i bicchieri.

      Il signor Max era un uomo sulla sessantina, grasso come una botte e col viso rubicondo nel cui mezzo faceva bella mostra un naso che poteva stare a paragone, senza arrossire, con quello del guascone Cyrano di Bergerac.

      «Buon appetito, signori» gridò, con una voce da granatiere. «Come va, signor Brandok? V’è passato lo spleen dopo la vostra gita a Nuova York?»

      «Comincia a lasciarmi un po’ di tregua, signor Max,» rispose il giovine «e spero che fra alcuni giorni se ne starà tranquillo per un buon secolo. Poi vedremo.»

      «Ah!… ho capito» disse il notaio, ridendo. «Toby ha trovato un compagno.»

      «Che mi terrà buona compagnia» disse il dottore, empiendo un bicchiere.

      «Assaggiate questo medoc, mio caro notaio; non se ne trova di simile nemmeno in Francia.»

      Magge entrava in quel momento, portando su un piatto d’argento un bel pasticcio dalla crosta dorata, che fumava ancora e che spandeva un profumo delizioso.

      «È attaccato il poney?» chiese il dottore.

      «Sì, padrone» rispose la cuoca.

      «Allora sbrighiamoci.»

      In pochi minuti fecero sparire il pudding, vuotarono una tazza di tè, poi scesero nel cortile, dove li attendeva un carrozzino tirato da un piccolo cavallo bianco che sembrava impaziente di partire.

      «Andiamo» disse il dottore, raccogliendo le briglie ed impugnando la frusta. «Fra mezz’ora saremo allo scoglio di Retz.»

      Era una splendida giornata d’autunno, rinfrescata da una brezza vivificante impregnata di salsedine, che soffiava dal settentrione.

      L’Oceano Atlantico era in perfetta calma, quantunque il flusso avventasse fra le scogliere che proteggevano le spiagge dalle ondate le quali s’infrangevano con mille boati, balzando e rimbalzando. Delle barche pescherecce colle loro belle vele dipinte di giallo e di rosso a strisce e macchie nere, che davano loro l’apparenza di gigantesche farfalle, spiccavano vivamente sull’azzurro cupo delle acque, spingendosi lentamente al largo, mentre in alto stormi di grossi uccelli marini, di gabbiani e di fregate volteggiavano capricciosamente.

      Uscito dalla cinta, il piccolo cavallo aveva preso una via abbastanza larga che costeggiava l’oceano, slanciandosi ad un trotto rapidissimo, senza che il dottore avesse avuto bisogno di eccitarlo colla frusta.

      Brandok era ridiventato taciturno, come se lo spleen lo avesse ripreso; il notaio pure non parlava, tutto occupato a fumare la sua pipa che eruttava un fumo denso come la ciminiera d’un battello a vapore.

      Il dottore badava che il poney filasse diritto e non mettesse le zampe in qualche crepaccio o s’avvicinasse troppo alla scogliera, che in quel luogo cadeva a picco sull’oceano.

      Dei ragazzi di quando in quando sbucavano dalle macchie di pini e di abeti che si prolungavano verso l’interno dell’isola e rincorrevano per qualche tratto il carrozzino, gridando a squarciagola:

      «Buona passeggiata, dottore!».

      Il paesaggio variava rapidamente, accennando a diventare più selvaggio, man mano che s’accostavano alla spiaggia orientale dell’isola. Non si vedevano più casette né abitanti. Soltanto le macchie dei pini e degli abeti diventavano più numerose e più folte e le scogliere più alte e più ripide; le onde dell’Oceano Atlantico vi s’infrangevano con una violenza tale, che pareva si sparassero delle cannonate in fondo ai piccoli fiordi scavati dall’eterna azione delle acque.

      Era un rombo continuo, sempre più fragoroso, che impediva ai tre amici di parlare.

      La strada era finita, però il poney non cessava di trottare, senza manifestare alcuna fatica e faceva traballare maledettamente la carrozzella.

      Ad un tratto si fermò dinanzi ad una parete rocciosa, dietro la quale si udiva l’oceano muggire furiosamente.

      «Siamo giunti» disse il dottore, balzando a terra. «Ecco lo scoglio di Retz.»

      «E lassù hai preparato la nostra tomba?» chiese Brandok.

      «Ed in una posizione bellissima» rispose il dottore. «Il muggito delle onde ci canterà la ninna nanna, senza tregua, fino al giorno della nostra risurrezione.»

      «Se torneremo in vita.»

      «Dubiti ancora, James?»

      «Non prenderti nessun pensiero per i miei dubbi. Ti ho detto che la vita ormai è diventata troppo pesante per me, quindi poco m’importerebbe anche se non mi risvegliassi mai più. Mostrami dunque la nostra ultima dimora.»

      «Non l’ultima.»

      «Come vuoi.»

      «Vieni, James.»

      Legò

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