Le novelle marinaresche di mastro Catrame. Emilio Salgari

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Le novelle marinaresche di mastro Catrame - Emilio Salgari

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Nettuno la proteggeva; ma guai a non farlo! Il tributo d’acqua si cambiava in una ecatombe umana, e papà Catrame, che è ancora qui, vivo per miracolo, lo sa!

      Il vecchio marinaio per la terza volta s’interruppe, girando sull’attento equipaggio un lungo sguardo, come per accertarsi che tutti lo ascoltavano religiosamente; ricaricò la pipa, l’accese, indi continuò: – Come vi dissi, la nostra corvetta era giunta nei pressi della linea: fra qualche ora doveva lasciare l’emisfero settentrionale per entrare in quello meridionale.

      – Il nostro mastro, rigido osservatore delle tradizioni marinaresche, si recò sul ponte di comando seguito da tutto l’equipaggio, e disse al capitano: «La linea è vicina, signore; Nettuno esige il suo tributo».

      – «Vada al diavolo Nettuno e tutti i suoi tritoni» rispose lo scettico.

      – Il mastro impallidì.

      – «Volete chiamare la sfortuna a bordo, signore», – disse.

      – «Me ne rido della collera di Nettuno, io».

      – «Ma l’equipaggio…»

      – «Basta così», – rispose ruvidamente il capitano. – «Sono padrone io a bordo: andatevene!»

      – Salì sul ponte di comando, ordinò di sciogliere tutte le vele, perfino gli scopamari e i coltellacci, e, per colmo di spavalderia insensata, fece ammainare la bandiera, onde togliere al re del mare ogni idea che lo si volesse salutare.

      – La corvetta, spinta da un buon vento, s’inoltrò verso la linea; ma, cosa strana davvero, camminava più lenta del solito, e pareva che ad ogni istante fosse lì lì per arrestarsi. I marinai sussurravano che erano i tritoni del re del mare che si aggrappavano alla carena per non lasciarla passare; ma il capitano crollava il capo e faceva aggiungere sempre nuove vele a quelle già sciolte.

      – A mezzogiorno preciso la corvetta passava la linea. Quasi nel medesimo istante un fremito agitò la tranquilla distesa dell’oceano, e dalla profondità degli abissi uscì un cupo rimbombo. Poco dopo un’onda immensa sorse agli estremi confini dell’orizzonte, si distese e venne a rompersi con cupi muggiti sulla prua della nave.

      – Ci guardammo l’un l’altro, stupiti e spaventati, e, parola di papà Catrame, vi era di che spaventarsi. Interrogammo ansiosamente gli ufficiali: ci dissero che, per un caso strano, un fenomeno, non so se maremoto o cos’altro, era avvenuto nel momento preciso in cui passavamo la linea. Ci credete voi? Io no, e scommetterei che non ci credevano neanche gli ufficiali, perché erano pallidi come tutti noi.

      – Anche il capitano era diventato serio serio, e la sua fronte si era aggrottata; ma egli era testardo come un guascone, e non voleva credere a Nettuno, né alla potenza di questo re.

      – Ed ecco ad un tratto sorgere all’orizzonte una nube, nera come il bitume. Voi non lo crederete forse; ma io, con questi occhi ho veduto che quella nube aveva tre punte acute, rassomiglianti a un gigantesco tridente. Eravamo tutti muti per lo spavento: ufficiali, marinai e mozzi erano diventati pallidissimi allo scorgere quella sinistra nube, nel cui seno guizzavano lampi sanguigni.

      – Pareva che Nettuno avesse rizzato dinanzi a noi il suo immane tridente per impedirci il passo; e così doveva essere, poiché poco dopo il vento girava bruscamente al sud, soffiando di fronte a noi. Cresceva la sua violenza di minuto in minuto, poi era caldo come se uscisse dalle voragini dell’inferno, e sollevava con forza irresistibile l’oceano, alzando la gran nube, che si estendeva minacciosamente sopra il nostro capo, e conservando sempre la sua bizzarra forma.

      – Dagli abissi del mare uscivano muggiti e boati profondi, il vento urlava su tutti i toni attraverso il sartiame dell’alberatura, nell’aria rombava incessantemente il tuono e lampeggiava. Talvolta tra le raffiche furiose, ci pareva di udire una voce possente che ci gridasse: «Non passa la linea chi non mi saluta!…»

      – Invano il nostro capitano, che non voleva arrendersi al re del mare, comandava manovre, girava di bordo per prendere vento largo, e tentava di avanzare bordeggiando: la nave veniva respinta dalle onde e dal vento. Tre volte ripassammo la linea, e tre volte fummo ricacciati nell’emisfero settentrionale.

      – Scoppiavano le vele, cedevano le manovre correnti, si piegavano come stuzzicadenti gli alberi e i pennoni, si sfondavano le murate, cresceva la paura in tutti; ma il testardo non voleva capitolare, e tornava sempre più irato alla carica, deciso di mandarci tutti a bere nella grande tazza salata, piuttosto che retrocedere.

      – Parve che la fortuna sorridesse all’audace, poiché a mezzanotte, dopo dodici ore di lotta disperata, la corvetta ripassava la linea, entrando nell’emisfero australe. Ma Nettuno aveva decretato la fine del testardo comandante.

      – Un’ora dopo, una montagna d’acqua rovesciava la corvetta sul tribordo. Cosa sia poi accaduto, non ho mai potuto saperlo con precisione. Mi ricordo confusamente d’aver veduto non so quante onde precipitarsi con orribile frastuono sul povero legno, di aver udito urla, invocazioni disperate, gemiti, scricchiolii, uno spezzarsi di legni, poi più nulla.

      – Quando rinvenni, mi trovai nel fondo di una scialuppa, solo sul burrascoso oceano. Come ero là? Non lo seppi mai.

      – La tempesta mi portò lontano lontano dal luogo del naufragio. Rimasi in mare dieci giorni, mangiando una delle mie scarpe e aprendomi due volte una vena per dissetarmi.

      – Quando una nave mi raccolse, ero ridotto in uno stato da far compassione: giallo come un melone, asciutto come un’aringa, tutto pelle ed ossa. Dei miei compagni non ebbi più notizia; si sono salvati, o riposano in fondo agli abissi marini? Io lo ignoro ancora; ma se qualcuno fosse sopravvissuto a quell’orribile catastrofe, l’avrei incontrato in qualche angolo del mondo e invece nessuno mai mi apparve. Sono tutti morti: il cuore me lo dice.

      Papà Catrame col dorso della mano spazzò via due lagrime che gli solcavano le incartapecorite gote, si mise la pipa in tasca e scosse malinconicamente il capo, brontolando: – Non si creda più ora al re del mare!…

      – A quale re? – chiese il capitano. – A quello creato dalla vostra balzana fantasia? Non è così, mastro Catrame? Un tempo si poteva credere all’esistenza di Nettuno forse, come si è creduto all’esistenza delle sirene e a cento altre corbellerie; ma oggi no, vecchio mio. Simili storie si lasciano ai marinai vecchi e barbogi…

      – Ma la corvetta…

      – Una tempesta qualunque l’ha affondata, Catrame.

      – Ma quell’onda immensa…

      – Un maremoto, mastro mio.

      – Ma quella nube…

      – Una nube pur che sia. Forse che non ne hai mai vedute di quelle che hanno tre, cinque, dieci, venti punte?… Va’ a dormire, papà Catrame, e lascia là Nettuno che non è mai esistito e il battesimo della linea che non è un omaggio reso al re degli abissi, ma una carnevalata inventata da allegri marinai. Va’, va’ e bevi il resto della mia bottiglia.

      La campana dell’inglese

      Anche durante la terza giornata papà Catrame non comparve in coperta. Voleva essere solo per frugare nei vecchi ricordi, onde prepararci una delle sue funebri leggende, o l’età gli pesava troppo sul groppone? Chi può dirlo?

      Quando però alla sera lasciò la cala e salì sul ponte, mi parve che fosse di cattivo umore. Non salutò nessuno, non guardò né il mare, né l’alberatura, e non chiese se fosse accaduto

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