Le stragi delle Filipine. Emilio Salgari

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Le stragi delle Filipine - Emilio Salgari

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alle stranezze del destino.

      – Non ti comprendo, Hang.

      – Non importa: affrettiamoci, Romero. Ci attendono.

      – Chi?…

      – I patriotti.

      Il chinese aveva affrettato il passo, inoltrandosi nelle viuzze interne di Binondo, abitate quasi esclusivamente dalle numerose colonie di chinesi e malesi di Manilla, viuzze fetide, fangose, sfondate e oscure anche in pieno meriggio, tanto sono strette.

      Case, casette ed anche semplici capanne di paglia e di fango, ma tutte coi tetti arcuati e sormontati dalle banderuole o dei draghi cigolanti sugli arrugginiti sostegni, le une addossate alle altre, e senza ordine.

      Essendo il sole già prossimo al tramonto, dinanzi a quelle abitazioni era stata già accesa qualcuna di quelle monumentali lanterne di carta oliata, che spandono quella luce scialba, malinconica, tanto cara ai coduti figli del Celeste Impero.

      Hang-Tu percorse rapidamente parecchie stradicciuole che erano deserte e s’arrestò dinanzi ad una casa d’aspetto tetro, colle pareti screpolate, colle arcate dei tetti minaccianti rovina, colle invetriate delle piccole finestre formate di conchiglie semitrasparenti tagliate a quadretti e fissate su di un telaio di legno.

      Sulla porta, semi-nascosta da un basso muricciuolo, destinato, secondo le credenze dei chinesi, ad impedire l’entrata agli spiriti maligni, si vedevano delle figure malamente disegnate e peggio dipinte, rappresentanti le tre incarnazioni del filosofo chinese Lao-Tse, sormontate da due sentenze scritte su carta incollata e che volevano dire:

      «Dirimpetto a me possa sorgere la ricchezza».

      E l’altra:

      «Possano i favori del Tien (cielo) scendere su questa porta».

      Hang-Tu si volse verso il meticcio, dicendogli:

      – Ci siamo.

      – Ma dove? – chiese Romero, con una certa ansietà.

      – Dove ci aspettano.

      Gettò un rapido sguardo sulla viuzza a malapena rischiarata da una lanterna che ardeva sull’angolo d’una casa, poi accostò le dita alle labbra, mandando tre fischi acuti.

      Un istante dopo, la porta della casa d’aspetto sinistro s’apriva senza far rumore ed un chinese di statura quasi gigantesca, con un cappello di fibre di rotang sul capo ed una lunga casacca di tela azzurra, stretta alla cintura da una larga fascia sostenente due rivoltelle, comparve, dicendo:

      – Eccomi, Hang-Tu.

      – I figli del Lotus bianco e del Giglio d’acqua sono pronti?…

      – Sí, Hang.

      – Siamo sicuri?…

      – Vi sono sessanta uomini disseminati nel quartiere. Nessun bianco potrà avvicinarsi senza essere scorto e pugnalato.

      – è necessario che si vegli attentamente, poiché conduco con me l’uomo atteso.

      – Manderemo altri venti uomini nel quartiere malese.

      – Va bene.

      Hang-Tu prese Romero per una mano, attraversò la porta girando il muricciuolo e s’inoltrò in un corridoio tortuoso ed oscuro, ma procedendo speditamente, senza esitazioni, come un uomo che già conosce la via.

      Dopo d’aver disceso parecchi gradini, introdusse il meticcio in un salotto privo di finestre, ma illuminato da una grande lanterna coi vetri di corna di bufalo ridotte in sottilissime lastre, e adorni di fiori variopinti.

      Quella stanza doveva trovarsi sottoterra, ma nessuna traccia di umidità si scorgeva sulle pareti, che erano coperte di carta fiorita di Tug e adorne di arazzi di seta color rosso fuoco a grandi disegni rappresentanti mostruosi draghi vomitanti fuoco e lune sorridenti.

      Non vi era nessun mobile, nemmeno una semplice sedia di bambú, ma invece negli angoli si vedevano degli enormi fasci d’armi: carabine indiane, fucili a retrocarica di provenienza europea e di varii sistemi, pistole e rivoltelle, sciabole, catane giapponesi taglienti come rasoi, parangs del Mindanao, pugnali, coltellacci, kriss e perfino delle spingarde di grosso calibro.

      – Mi attenderai qui, – disse Hang-Tu a Romero.

      – Una domanda, prima.

      – Parla.

      – Dove mi trovo?

      – Nella sede delle due società segrete chinesi Giglio d’acqua e Lotus bianco.

      – Ho udito parlare di queste potenti società.

      – Sai che hanno abbracciata la causa dell’insurrezione?…

      – Lo ignoravo.

      – Te lo dico ora.

      – Ma che cosa vogliono da me?…

      – Esse rappresentano in Manilla l’insurrezione.

      – Che cosa vuoi concludere?…

      – Che devi giurare a loro fedeltà e poi…

      – Continua, – disse il meticcio, vedendo che il chinese si era arrestato.

      – Poi ti eleggeranno comandante delle forze degli insorti che guerreggiano nella provincia di Cavite.

      – Io, capo?…

      – Lo si vuole.

      – E contro chi dovrò battermi?…

      – Lo deciderà la sorte.

      Il meticcio rialzò vivamente il capo, che aveva tenuto fino allora chino sul petto, e guardò il chinese, ma questi aveva un aspetto tranquillo e i suoi occhi nulla tradivano.

      – Attendimi, – disse finalmente Hang-Tu, che aveva sopportato quell’esame, senza che un muscolo del suo volto giallastro trasalisse.

      S’avvicinò ad una porta di legno di tek che si scorgeva all’estremità della sala sotterranea e battè tre colpi su di una lastra di metallo, un gong. Le vibrazioni argentine del disco non erano ancora cessate, che la porta si aprí, richiudendosi tosto, ma senza far rumore, dietro le spalle del chinese.

      Romero era rimasto immobile in mezzo la sala, porgendo attento orecchio a vaghi rumori che provenivano dalla parte ove il suo compagno era scomparso. Pareva che dietro la robusta porta di tek, un grande numero di persone bisbigliassero.

      Ad intervalli regolari echeggiava come un lontano fragore d’armi, ma subito si spegneva ed il bisbiglio misterioso tosto ricominciava.

      Senza dubbio, nei sotterranei della casa, d’aspetto sinistro, si teneva una riunione numerosa, per discutere sui mezzi piú adatti per sopprimere le truppe spagnuole o si tramava qualche audace colpo di mano contro la popolazione bianca di Manilla, per strappare il formidabile baluardo ai dominatori.

      Cinque minuti erano appena trascorsi, quando Hang-Tu rientrò dicendo:

      – Vieni,

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