I rossi e i neri, vol. 1. Barrili Anton Giulio
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Lorenzo afferrò la mano che Aloise gli offriva, e lo abbracciò con affetto.
– Vostro amico per la vita e per la morte, Aloise di Montalto. Il caso, più assai che l'arte, dirige la punta di una spada; ma non è certamente il caso quello che fa incontrare due uomini i quali debbano essere amici, come noi saremo da oggi in poi. —
Aloise e Lorenzo, il nobile e il popolano di nome, ma ambedue gentiluomini per altezza di mente e cortesia di modi, si abbracciarono da capo.
Tante e così svariate commozioni avevano stancato il ferito, che sostenuto da Lorenzo e dal dottore Mattei si recò fino alla sua carrozza, la quale stava ad aspettarlo più al largo, a metà della viottola.
Il duello di Aloise di Montalto fece chiasso, e se ne parlò per giorni parecchi in ogni ritrovo, da via Balbi a porta d'Arco, dalla piazza de' Banchi al famoso angolo della libreria Grondona; e questo per la qualità delle persone che c'entravano, e che, salvo Lorenzo, erano tutte conosciute in Genova, stiamo per dire, come Barabba a Gerusalemme, nei tempi evangelici.
Come è costume da noi in simili occasioni, furono fatte di molte ciarle su quello scontro e sulle sue conseguenze. Il Montalto era lì lì per tirare le cuoia; il polmone era stato passato fuor fuori; un'arteria era stata toccata; insomma non c'era più speranza di salvarlo. Tutti avevano parlato col medico, e vi sapevano dire perfino come il ferito avesse passato la notte. Ma più delle ciarle furono discordi i pareri sulle ragioni del duello. C'era chi dava il torto al marchese di Montalto, e chi a Lorenzo Salvani; e si trovò perfino chi desse ragione al Collini, perchè (si diceva) era tempo oramai di farla finita con quella barbara costumanza del duello.
E v'ebbe anche taluno, il quale, forse per meglio dimostrare la barbarie del duello, affermò che se a lui fosse stata recata una sfida, avrebbe risposto a pugni e mostaccioni: oppure avrebbe accettato l'invito, ma con due pistole, l'una carica e l'altra vuota; e magari con due pillole, diverse nella composizione e negli effetti; il che nel caso del signor Collini sarebbe parso più naturale.
Ma torniamo a Lorenzo, del quale ci importa per ora più che di tutti gli altri personaggi della nostra narrazione. Egli era tornato a casa, dove il veterano Michele lo aveva preceduto, dando con tutta la forza dei suoi polmoni nella tromba della fama, sebbene non ci avesse altri uditori che la signorina Maria.
La giovinetta s'era fortemente turbata a quel racconto di Michele; ma Lorenzo era giunto anche lui sano e salvo; laonde ella non seppe dolersi dell'accaduto che riusciva ad onore del fratello, e tenne bordone alle guerresche sfuriate di Michele con una frase che merita d'essere qui riferita:
– Alla perfine, un uomo deve fare il debito suo, avvenga che può; ed anco a me, se fossi un uomo, darebbe l'animo di fare lo stesso. —
Il giorno dopo, Lorenzo Salvani, tornando dalla via Balbi dove si era recato a visitare Aloise di Montalto, passò all'uffizio delle Poste, e trovò una lettera per lui, la quale veniva da Genova.
Chi mai poteva avergli scritto da Genova?
Era una letterina chiusa in una elegante sopraccarta inglese di forma quadrata, col suggello di ceralacca azzurra e una corona comitale in rilievo. Di conti, Lorenzo non conosceva altri, per allora, che il Nelli di Rovereto; ma la lettera non poteva venire da lui, che egli aveva veduto mezz'ora innanzi al capezzale di Aloise. D'altra parte la soprascritta faceva mostra di certi graziosi uncinetti, che non indicavano punto la mano di un uomo; e non veniva da un uomo quell'essenza di violetta che profumava la lettera.
Lorenzo, dopo avere almanaccato un tratto, fece quello che avreste fatto voi, o lettori, e che avremmo fatto anche noi, in un caso simigliante. L'aperse, e lesse queste poche parole:
«La contessa Matilde Cisneri prega il signor Lorenzo Salvani, a voler passare da lei, domani, per cosa urgente; e lo ringrazia in anticipazione.»
Potete immaginarvi come egli rimanesse a quella lettura. Di stucco, è forse un dir troppo. Ma che cosa voleva la contessa Cisneri da lui? Lorenzo l'aveva udita nominare come una delle più belle signore di Genova; ma, vivendo egli appartato dal mondo elegante, non aveva mai avuto occasione di conoscere quella bellezza neanche per via. Ma egli era uomo, finalmente; ed una lettera di donna doveva fargli quel senso che fanno di consueto ad un uomo gli scarabocchi di una figlia di Eva.
– Domani! – andava egli dicendo tra sè. – Da oggi a domani ci sono ventiquattr'ore da aspettare. Basta; purchè passino, vedremo.
VIII
Dove si legge vita e miracoli della signora che aveva scritto la lettera.
La contessa Matilde Cisneri, che ora è in Francia, abitava nel tempo di questa narrazione una palazzina di là dall'Acquasola. Oggi la cerchereste invano, questa palazzina, perchè ha da essere caduta nel taglio di una tra le nuove strade aperte verso la montagna, se pure non è rimasta sopraffatta tra due file di casamenti nuovi, che bene non ci ricorda.
Era una donna celebre, la contessa Matilde; una delle dieci o dodici apostolesse della moda, le quali si contendono, o si spartiscono il dominio dei cuori; regine elette per suffragio universale, ma che ripetono tuttavia il loro diritto divino dalla bellezza e dal censo; le quali, se vanno a spasso, ci hanno il corteggio di parecchi cavalieri, e in teatro vedono aprire e chiudere di continuo l'uscio dei loro palchetti, per la ressa dei visitatori; talune buone e talaltre cattive secondo la loro natura e quella di chi le attornia; donne che tutti saettano dei loro sguardi e assediano dei loro sospiri; delle quali ognuno vi racconta la vita, o si argomenta di raccontarvela, perchè essendo esse più in mostra di tante altre, ogni loro parola, ogni gesto, sono interpetrati per diritto e per rovescio, epperò ad un terzo di vero si appiccicano molto agevolmente due terzi di falso.
La contessa di cui parliamo, nata col titolo, avrebbe dovuto perderlo andando sposa ad un ricco intraprenditore di opere pubbliche; ma questi era morto, lasciando lei erede usufruttuaria. Non aveva carrozza; ma a Genova la mancanza di una carrozza non è poi molto grave. Per contro aveva un palchetto in prima fila al teatro Carlo Felice, e ci andava con una sua vecchia amica, la quale, non sapendo staccarsi dal mondo e dalle sue vanità, si appuntellava alla rinomata bellezza di una giovine, per non uscirne del tutto, avendo poi l'aria di tenere la vedovella in quasi materna custodia. Da qualche tempo la contessa era infastidita dei suoi adoratori consueti. A Genova, come in ogni altra città, v'è uno stuolo vagabondo di questi personaggi, i quali fanno in una sola sera, e nel tempo di una sola rappresentazione di teatro, più giri che uno sciame di pecchie. Altri direbbe calabroni, ma noi ci atteniamo alla immagine più graziosa. Ora alla contessa Matilde questo farfalleggiare non andava molto a genio, nè più le garbava quello scambiare di futilissimi discorsi, o il dover nutrire la conversazione di ciò che faceva l'Erminia, l'Amalia, la Fanny, od altra delle dive, semidive e ninfe della giornata.
D'altra parte (e forse qui era da trovarsi la vera ragione) da qualche tempo ella non risplendeva più nel «ligustico cielo» come una stella di prima grandezza. Al suo entrare in teatro, ella non vedeva più, come prima, voltarsi le teste di tutti gli Adoni, con quel piglio di curiosa attenzione che sembra dimandarne altrettanta.