I rossi e i neri, vol. 1. Barrili Anton Giulio

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I rossi e i neri, vol. 1 - Barrili Anton Giulio

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è appunto un disegno per ricamo; – disse la contessa. – L'ultimo venuto da Parigi non mi garbava molto, e volevo farne uno di mio capo per metterlo sul telaio. Sapete pure, signor Salvani, che lunghe ore di tedio passiamo noi in casa, quando manchi l'argomento affettuoso delle cure domestiche. Un ricamo, od altra cosa qualsiasi, che a prima giunta pare, e considerata in se stessa è certamente assai frivola, ci offre una occupazione materiale in cui riposare la mente, per farci poi cavar più diletto da una bella lettura, o da una passeggiata all'aperto.

      – Non vi scusate, signora contessa! – soggiunse Lorenzo. – Voi disegnate un fiore, e sta bene. Il fiore non è egli forse una delle più belle opere di Dio? Anzi, per dimostrarvi che siffatte occupazioni si addicono agli uomini come alle donne, con vostra licenza, voglio metterci anch'io queste mani profane.

      – Fate pure, signor Salvani, e il mio fiore riuscirà certamente più bello. —

      Lorenzo prese con fanciullesca sollecitudine, il posto della contessa Matilde, e tolta in mano la matita, si diede con artistica gravità ad abbozzare un elegante mazzolino di que' fiori che nascono soltanto negli orti della fantasia cinese. Imperocchè l'uomo si è fitto in capo di abbellir la natura, e dove non si mette a dirigere e ad educare gli amori delle piante per mutarne le forme e temperarne a sua posta i colori, inventa nuove fogge senz'altro; queste però sulla carta, perchè la natura non è disposta a seguirlo in tutti i suoi capricciosi vaneggiamenti.

      Non faccia le meraviglie il lettore se Lorenzo Salvani, il giovine severo, il soldato di Roma, s'è posto a disegnare un mazzolino di fiori pel telaio della bionda contessa. Gli antichi, nostri maestri in tante cose, non isdegnarono rappresentarci Ercole, il figlio di Giove e il domatore dell'idra di Lerna, seduto presso ad Onfale, in quella positura che finse più tardi lo Shakespeare per il suo Amleto a' piedi di Ofelia (leggete a questo proposito il testo inglese), e intento a trarre il filo dalla conocchia di lei. Ora tutti gli uomini sono figli in cotesto del dio della Forza, che lo imitano a puntino nelle sue debolezze.

      Che faceva intanto la contessa Matilde? Con una mano poggiata sulla spalliera della scranna, e la testa curva accanto a Lorenzo, ella stava seguendo degli occhi i giri della matita che egli maneggiava con facile sprezzatura. Le guance della donna erano presso alle sue, e i segni della sua ammirazione, tradotti in parole, gli accarezzavano il volto, chiamando il sangue in tutti i meati più sottili di quella superficie, di consueto così pallida.

      Lorenzo disegnava, ma il suo sangue ardeva; e in quella guisa che un terreno arsiccio beve avidamente uno spruzzo d'acqua e ne fa sparire in breve ogni traccia, il suo sangue si beveva quel soffio delicato, e riardeva sempre più forte. Ma presto venne il punto che egli non potè più durarla, e alzando il capo verso la contessa, ne disse una delle sue, la più grossa che le avesse ancor detta.

      – Oh perchè non posso io dar loro la vita, a questi poveri fiori, e inspirar loro nelle aperte corolle quel dolce effluvio che si spande dalla vostra persona! —

      Non era questa la prima avvisaglia, ma certamente la più forte, e la contessa non potè simulare di non averla notata. Risollevò il capo con aria turbata, si volse indietro due passi e si lasciò cadere sul sofà, dove stette silenziosa col viso nascosto nelle palme.

      Era graziosa, molto graziosa in quella postura, la contessa Matilde. Le sue mani sottili e delicate che il Bartolini, adoratore di belle mani, avrebbe modellate assai volentieri, non giungevano a coprirle tutto il viso; però la fronte e una parte delle guance lasciavano scorgere quel leggiero incarnato che si dipinge così facilmente sul volto delle donne, quando mette loro più conto.

      Più turbato a gran pezza di lei, Lorenzo si alzò e si fece presso alla contessa.

      – Signora, – le disse egli con voce tremante, – che cosa ho detto io mai, che abbia potuto spiacervi tanto? Io sarei il più tristo degli uomini se avessi, con animo deliberato, a dirvi cosa che potesse offendere la vostra dignità, o fallire al rispetto che meritate.

      – Oh no, signor Salvani; non si tratta di tanto; – rispose la contessa Matilde, in quella che si affrettava a stendergli la mano. – Voi ricadete nella malattia dei complimenti, e ne avete fatto uno testè, il quale, non mi offende già, mi addolora. —

      Lorenzo non sapeva che rispondere. Che questa donna non m'intenda? pensò egli tra sè. Che essa non si avveda di ciò che gli occhi miei le dimostrano?

      La mano della contessa era ancora nelle sue, e non dava segno di volersi ritrarre. Non era dunque una donna sdegnata che gli aveva parlato a quel modo; e questa considerazione gli diede animo a rispondere, ma senza accorti rigiri, aperto come egli sentiva.

      – Signora contessa, mi accusate forse di un lieve fallo, per delicato intendimento di non avermi a rimproverare una colpa più grave, e non farmene arrossire?

      – No, vi dico quel che penso; perchè?

      – Perchè se voi mi reputaste capace di avervi recato offesa, ve ne recherei scusa e uscirei subito dalla vostra casa. Se in quella vece, come cortesemente mi dite ora, mi accusate di far complimenti, di non dirvi schietta la verità, io vi prego di concedermi libertà di parola, per difendermi da un'accusa che so di non meritare.

      – Che aria grave assumete voi, signor Salvani! Parlate pure; io so bene che non potrete dir cosa mai, la quale mi offenda.

      – Orbene, signora, vi parlerò schiettamente, checchè possa costarmi. Sono un povero giovine, ma sono altresì un onest'uomo. Questo povero giovine, che vedete dinanzi a voi, è rimasto inebriato dalla vostra bellezza, dalle grazie del vostro spirito. E non istate a dirmi che esco dai confini del vero. In un cuore come il mio l'affetto nasce e germoglia sollecito, e voi siete fornita di così sottile accorgimento da intendere come l'esser vicino a voi abbia potuto turbarmi. Questa è la verità, o signora, e l'onest'uomo, che vedete del pari, sente il debito di dirvela tutta quanta. Se anco questa vi spiace, il povero giovine, l'onest'uomo, se ne andrà; sebbene combattuto dal più fiero desiderio di rimanere, dal più acerbo dolore di non aver meritato una migliore accoglienza, se ne andrà, ve lo giuro, se ne andrà.

      – Dio mio! – esclamò la contessa, che era stata ad ascoltarlo in atteggiamento di mestizia. – È egli dunque vero che un uomo ed una donna non possano stare l'uno accanto dell'altra ed essere amici, null'altro che amici? —

      Qui la contessa raccolse di bel nuovo la sua bionda testa nelle palme, e stette un tratto a pensare. Lorenzo non rispose, e ricadde sulla scranna, con le mani sulle ginocchia e il capo chino.

      – E perchè mai, – proseguì la contessa, come se ragionasse con se medesima, – tutti gli uomini hanno a dire le stesse parole? —

      Lorenzo allora sollevò la fronte, e dopo una breve pausa si fece a rispondere:

      – Le stesse parole, forse; ma non tutti a questo modo, signora, nè con tanta verità di pensiero. Vi diranno di amarvi; ma nessuno ve lo dirà così presto come io ve l'ho detto, la seconda volta che vi vedo, pronto a soffrire quella pena che voi potreste infliggermi maggiore, negandomi di poter ritornare da voi. Signora, non perdonerete voi dunque a chi vi ha detta la verità? —

      E così dicendo, Lorenzo Salvani si alzò, aspettando la sua sentenza.

      La contessa alzò la fronte a guardarlo. Il giovane aveva pallido il viso e impresso di una severa mestizia; nè ella seppe tener fermo, senza un poco di turbamento, innanzi allo sguardo profondamente pietoso, ma altero ad un tempo, di Lorenzo Salvani.

      – Perdonarvi! – disse ella con voce fioca. – È cosa fatta. Una donna non ha ragione a dolersi se un uomo pari vostro le parla di amore. Taluna forse, più sofistica delle altre, noterebbe

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