Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I. Botta Carlo

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I - Botta Carlo

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a fermar la sede loro nella maremma. Pagassesi dall'erario il quarto del prezzo delle nuove case ai fondatori; dessersi terre o gratuitamente, od a basso prezzo, od a carico di livelli, od in enfiteusi; dessesi anco denaro a presto, e sicuro asilo a chi vi si venisse a ricoverare. Per questo e crebbe la popolazione, ed i terreni si coltivarono, e l'aria risanò. Peggiorarono poi le opere per le difficoltà dei tempi. Pure rimangono, e forse ancora lungo tempo rimarranno nelle maremme sanesi i vestigi della generosità di Leopoldo.

      Nè minor lode meritano gli ordinamenti di questo giusto e magnanimo principe circa il debito dello stato. Più di tre mila luoghi di monte furono cancellati, restituiti i capitali ai creditori col ritratto dei beni venduti spettanti a regie e pubbliche aziende, impiegando a questo uso anche i capitali provenienti dalla dote e contraddote della regina sua moglie, ed altri constituenti parte del patrimonio suo privato. In tal modo si spense in gran parte il debito, che tanto gravava l'erario: così mentre in altri luoghi d'Italia il debito dello stato montava continuamente, non per altro fine che per crear soldatesche, in Toscana per opera di Leopoldo il debito medesimo si estingueva per fondarvi un governo dolce, quieto per se, sicuro pei vicini.

      Nè per questo tralasciavansi provvedimenti di utilità o di ornamento; perciocchè nel tempo medesimo sorgevano scuole per ogni ceto, conservatorii, case di rifugio e di ricovero, ospizi ed ospedali: gli studi di Pisa e di Siena meglio s'ordinavano: nuovi palazzi fondavansi, gli antichi s'abbellivano, nuovi passeggi si aprivano, lo librerìe s'arricchivano, il gabinetto di fisica s'accresceva, ed un orto botanico si piantava.

      Tra mezzo a tutto questo il principe, siccome quello che giusto era e sincero, non volle starsene oscuro. E però fe' pubblicare la dimostrazione per entrata e per uscita delle rendite dello stato dal 1765 fino al 1789. In questo quasi specchio dell'economia di Toscana vedonsi ed i risparmi fatti, e le imposizioni moderate, ed il denaro convertito in cause pietose di sollievo, o d'ornamento pubblico.

      Sonmi io fermato lungo spazio nel parlare della sapienza civile di Leopoldo, perchè a ciò fare m'invitava il grandissimo diletto ch'io ne prendeva, e perchè pur troppo il filo della mia storia guiderammi a favellare di casi di gran lunga da questi dissomiglianti; nè credo, che chi mi leggerà, se fia d'animo benigno, m'accagionerà di essermene andato per le lunghezze, o di essermi dimorato alquanto in questa dolcezza; poichè dolcezze tali son rare per gli storici, in tanta infelicità dell'umana condizione.

      Ma è tempo oramai ch'io venga a discorrere delle riforme fatte in Toscana da Leopoldo nell'ecclesiastiche discipline, materia di tanta gravità, e che destò tanto grido e tanta aspettazione d'uomini sì in Italia, che fuori di essa. Gli antichi Toscani più propensi a dar ricchezze ai conventi che alle parrocchie, lasciarono quelli ricchi, queste povere. Le massime larghe dei gesuiti, e la constituzione UNIGENITUS erano state accettate senza opposizione alcuna in Toscana. Ma quando fu assunto al vescovato di Pistoia l'Ippoliti, i libri degli scrittori di Porto-Reale incominciarono ad andar per le mani degli ecclesiastici. Arnauld, Nicole, Dughet, Gourlin, Quesnel, diventarono i libri favoriti dei preti. Questa inclinazione verso la scuola di Porto-Reale molto s'accrebbe, quando Scipion Ricci successe all'Ippoliti nella sede vescovile di Pistoia. Se ne compiacque Leopoldo, e convocò nel 1787 un'assemblea dei vescovi di Toscana, proponendo loro cinquanta sette punti, tutti relativi alla riforma dell'ecclesiastica disciplina. Molti s'accordarono, altri si modificarono, alcuni si serbarono a tempi migliori.

      Il principe, avuto il parere di prelati venerabili per dottrina e per integrità di costumi, procedè più francamente alle riforme. Stabilì, le parrocchie dessersi a concorso, s'aumentassero i redditi loro, veruna tassa più non pagassero ai vescovi forestieri, annullassersi le pensioni di qualunque sorte sopra i benefizi curati, permutassesi la destinazione dei fondi vincolati ad usi religiosi, e indifferenti, o poco utili, ed il provento di tali capitali in aumento delle scarse congrue dei parochi più bisognosi s'impiegasse; con questo, ed in compenso di tali concessioni, i rettori delle cure dall'esazione delle decime, e da altri emolumenti di stola desistessero; i parochi alla residenza obbligati fossero; niuno più di un benefizio goder potesse, ancorchè semplice, massimamente se residenziale fosse; tutti i sacerdoti che benefizio residenziale avessero, fossero alla chiesa, ov'era fondato, incardinati, e tutti i sacerdoti semplici, alla chiesa parrocchiale, dove abitassero, e ciò con dipendenza dal paroco, ed obbligo di aiutarlo nel pio suo uffizio; i benefizi tanto di collazione ecclesiastica, quanto di nomina regia, a chi servito avesse od attualmente servisse la chiesa, solo ed unicamente si conferissero; i regolari ed i canonici dal paroco dipendessero, e ad aiutarlo in tutto che abbisognasse obbligati fossero; alla sussistenza degli ecclesiastici o poveri, od infirmi provvedessesi; i romiti, salvo quelli che utili fossero, abolissersi; tutte le compagnie, congregazioni, e confraternite sopprimessersi; a tutte sostituissersi le sole compagnie di carità; le chiese, oratorii, refettorii, e stanze delle compagnie soppresse ai parochi gratuitamente si consegnassero; i religiosi regolari dal vescovo dipendessero; l'abito non vestissero prima dei dieciott'anni, non professassero prima dei ventiquattro; le religiose non prima dei venti vestissero, non prima dei trenta professassero; il tribunal del sant'officio s'annullasse; le censure di Roma, per quanto si risolvono in pene temporali, ed i monitorii di scomunica, senza il regio consenso non s'eseguissero, nè pubblicarsi, nè intimarsi, nè attendersi nel foro esterno potessero; s'intendesse abolito il privilegio degli ecclesiastici di tirar i laici al foro loro, e nelle cause criminali in tutto e per tutto ai laici parificati fossero; le curie ecclesiastiche e delle cause meramente spirituali conoscessero, e pene puramente spirituali definissero; gli ordinarii ogni due anni il sinodo diocesano, per conservare la purità della dottrina e la santità della disciplina, convocassero.

      Queste deliberazioni del principe toscano, ancorchè molestissime alla corte di Roma, non toccavano però la sostanza stessa di quell'autorità pontificia, che già da più secoli o tacitamente consentita, o espressamente riconosciuta dalla chiesa pretendono i papi aver piena ed intiera. Tengono i curialisti romani quest'opinione, che il papa sia solo vicario, e rappresentante di Cristo, e suo plenipotenziario; e che tutti gli altri vescovi del mondo siano vicari, non di Cristo, ma del pontefice romano, cosicchè nella chiesa non vi sia veramente che un vescovo solo universale, che riceva da Cristo tutto il deposito dell'autorità ecclesiastica da comunicarsi da lui con misura a' suoi subalterni. Ma a quelle deliberazioni non si rimase Scipion Ricci, vescovo di Pistoia, che intento sempre a voler ritirare il governo della chiesa verso i suoi principii, aveva già opinato nell'assemblea dei vescovi di Toscana, acciò si ampliassero le facoltà, non che dei vescovi, dei parochi, volendo, a foggia dell'antica comunanza dei Cristiani, che gli uni e gli altri avessero voce deliberativa nei sinodi diocesani. Statuì poi nel suo sinodo, avere il vescovo ricevuto da Cristo immediatamente tutte le facoltà necessarie al buon governo della sua diocesi, nè potersi le facoltà medesime od alterare, od impedire, e poter sempre, e dovere un vescovo nei suoi dritti originari ritornare, quando l'esercizio loro fu per qualsivoglia cagione interrotto, se il maggior bene della sua chiesa il richiegga. Le quali proposizioni fecero assai mal suono alle orecchie romane, per guisa, che Pio VI come erronee, ed anche come scismatiche, alcuni anni dopo, le condannò. Aggiunse il Ricci alcune altre dottrine, che parvero e temerarie ed alla santa sede ingiuriose; essere una favola pelagiana il limbo dei fanciulli, un solo altare dover essere in chiesa secondo il costume antico; la liturgia ed esporsi in lingua volgare, e ad alta voce recitarsi; il tesoro dell'indulgenze esser trovato scolastico, chimerica invenzione l'averlo voluto applicar ai defunti; la convocazione del concilio nazionale esser una delle vie canoniche per terminar le controversie circa la fede ed i costumi. In fine sommamente dispiacque a Roma quella proposizione del sinodo pistoiese, per la quale i quattro articoli statuiti dal clero gallicano nell'assemblea del 1682 si approvarono, e questa particolarmente Pio Sesto con una sua bolla tassò, e dannò come temeraria, scandalosa, ed alla santa sede ingiuriosa.

      Le dottrine del sinodo pistoiese levarono un gran rumore in Italia, massimamente quando furono condannate da Roma. Scritti senza numero vi si pubblicarono da persone dottissime nella storia ecclesiastica, alcuni in favor di Roma, molti in favor di Pistoia, e fra Pistoia e Roma pendeva sospesa la lite. Allegavasi dai papisti, incominciare a por piede in Italia l'eresie di Lutero; dai difensori del Ricci, un salutar freno incominciarsi a porre alla prepotenza di Roma. Gli ultimi, tra perchè pretendevano ai discorsi loro parole santissime di semplicità

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