Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta. Massimo d' Azeglio

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Ettore Fieramosca: ossia, La disfida di Barletta - Massimo d' Azeglio

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a dirlo, le lagrime calde calde mi scendevano per la gorgiera dell'elmo, e mi bagnavano il collo: io che non sapevo che cos'era piangere! In quella tornò addietro una furia di Mori stretta da molti uomini di arme, e quel re era obbligato a fuggire, e veniva mugghiando come un toro. Io preso in mezzo da questi, solo, a piedi mi vidi morto. Tenni lontano più d'uno girando la spada; ma mi cadde sul capo quella del re che m'aperse l'elmo e rimasi per morto un pezzo. Quando mi riscossi e mi potetti alzar da terra, mi trovai il povero Zamoreno steso morto accanto. —

      I casi del cavallo di Segredo erano stati uditi con affetto da tutta la tavola, ed il vecchio soldato al fine del suo racconto non avea potuto a meno di non mostrare sul viso solcato dall'età e dai travagli, che la memoria dell'antico compagno gli durava molto viva nel cuore. Qui ebbe vergogna di farlo troppo scorgere, e si versò da bere per distrarre gli sguardi che ancora lo fissavano.

      Jacques de Guignes che, non meno degli altri prigioni, era andato riprendendo animo a misura che s'era pieno lo stomaco, udita la storia di Zamoreno cominciò:

      – Chez-nous, messer cavaliere, questo non vi sarebbe accaduto tanto facilmente (quantunque è pur troppo vero che les bonnes coutumes de chevalerie si vanno perdendo ogni giorno). Pure un uomo d'arme si crederebbe disonorato se ad armi e a numero pari la sua spada cadesse sul cavallo del nemico. Ma dai Mori, come tutti sanno, non si può aspettare questa cortesia.

      – Eppure – disse Inigo, rispondendo ad una proposta che non gli era diretta – si potrebbe provare che non è usanza solamente de' Mori l'ammazzar cavalli. Lo sanno le pianure sotto Benevento, e lo seppe il povero Manfredi. E Carlo d'Angiò, che ne diede l'ordine, non era più Moro di voi e di me. —

      La stoccata era diritta, ed il Francese si scontorse sulla sedia.

      – Questo si dice; forse sarà vero: ma Charles d'Anjou combatteva per un reame, e poi aveva a fare con uno scomunicato nemico della Chiesa.

      – Ed egli non lo era della roba altrui? – interruppe Inigo con un sorriso amaro.

      – Credo che saprete – prese la parola La Motta – che il reame di Napoli è feudo della S. Sede, e che Charles n'ebbe l'investitura: e poi il diritto d'una buona spada vale qualche cosa.

      – E poi, e poi… Diciamo la cosa com'è – riprese Inigo – le barbute tedesche di Manfredi, ed i mille cavalieri italiani che guidati dal conte Giordano combattevan contra i Francesi s'erano mostrati tali dal principio della battaglia, che Carlo d'Angiò non istimò inutile, volendosi far re di Napoli, di ricorrere a questo espediente a malgrado les bonnes coutumes de chevalerie, in vigore a quei tempi.

      – Vi concederò se volete – rispose La Motta – che i Tedeschi valgano qualche cosa sotto la corazza, ed avranno forse potuto far testa qualche momento alla gendarmeria francese, nella giornata di Benevento; ma quanto ai vostri mille Italiani, veramente! Se erano dugento anni fa, quel che sono al dì d'oggi, non faceva bisogno che per metterli in rotta i Francesi perdessero il tempo a storpiare i loro poveri cavalli. Da cinque anni che scorro l'Italia, ho imparato a conoscerli, ho seguitato il re Carlo nella compagnia del prode Louis d'Ars, e v'assicuro che le frodi degl'Italiani ci hanno dato a fare più delle loro spade. La sola guerra che essi conoscano è la sola che ignori la lealtà francese. —

      Queste gonfie parole poco piacquero a tutti, e niente affatto ad Inigo, che aveva coltura ed ingegno più che mediocre: era amico di molti Italiani militanti sotto le bandiere di Spagna, e conosceva com'erano andate le cose nella calata di Carlo in Italia. Sapeva, per dirne una, che, a malgrado la lealtà francese, ai Fiorentini non era stato tenuto l'accordo, ed erasi loro fatta ribellar Pisa; nè le fortezze che l'imprudenza di Pietro de' Medici avea poste in mano loro, erano, secondo la fede data, state restituite al tempo stabilito. Tutto ciò corse al pensiero d'Inigo, e le parole di La Motta gli movevan la stizza, mal sofferendo che i poveri Italiani, traditi e malmenati dai Francesi, fossero da questi medesimi trattati da traditori e coperti di vituperj. Stava perciò in procinto di dirgli il fatto suo; ma quegli accorgendosi che le sue parole non erano favorevolmente accolte, aggiunse:

      – Voi venite di Spagna da poco tempo, signori, e non sapete ancora che razza di canaglia sieno gl'Italiani; voi non avete avuto a far nè col duca Lodovico, nè col papa, nè col Valentino, che prima ci ricevevano a braccia aperte, e poi cercavano di piantarci il pugnale nelle reni. Ma a Fornovo si sono accorti che cosa può fare un pugno di brava gente contra un nuvolo di traditori: ed il Moro il primo è stato preso nelle sue reti. Scellerato! se non avesse altro delitto che quello della morte di suo nipote, non basterebbe forse questo solo a farlo il più infame degli assassini?

      – Ma – disse Correa – suo nipote era infermiccio e di poco senno, e si vuole sia morto naturalmente.

      – Naturalmente, come tutti coloro ai quali vien dato un veleno. De Forses e De Guignes lo sanno, che erano anch'essi alloggiati come me nel castello di Pavia. Il re andò a visitare la povera famiglia di Galeazzo (e tutto questo lo tengo dalla bocca di Filippo de Comines al quale fu raccontato dal re stesso). Il Moro lo condusse per certi passaggi oscuri, in due camere basse ed umide che guardavano le fosse del castello; trovò il duca di Milano colla moglie Isabella ed i figli. Questa si gettò ai piedi del re pregandolo per suo padre, ed avrebbe voluto pregarlo anche per sè e pel marito, ma quel traditore del Moro era presente: il povero Galeazzo pallido ed estenuato poco disse, e pareva sbalordito dall'enormità della sua disgrazia: già aveva nelle vene il veleno che lo ammazzò… E Cesare Borgia, per dirne un altro: dove trovate una coppia come questa? Abbiamo viste di lui cose che se si raccontano non son credute. Poi, già molte delle sue imprese sono conosciute quanto basta. Tutto il mondo sa che ha ammazzato il fratello per averne gli onori e la roba; tutto il mondo sa come ha fatto per diventar padrone della Romagna; tutto il mondo sa che ha ucciso il cognato, avvelenato cardinali, vescovi e tanti altri che gli davano ombra. —

      Volgendosi poi ai suoi compagni francesi col viso di chi ricorda un fatto noto e degno di compassione: – E la povera Ginevra di Monreale? La più bella, la più virtuosa, la più amabile donna ch'io m'abbia mai conosciuta! Questi miei amici se ne ricordano: fu da noi veduta al nostro passaggio in Roma del 92. Ma la sua mala sorte la fece anche conoscere al duca Valentino allora cardinale: era costei divenuta moglie di un nostro soldato ch'ella aveva sposato più per ubbidienza a suo padre che per altro. Fu presa da un male che nessuno seppe conoscere; si provarono tutti i rimedii; tutto fu inutile: dovette morire. Ma un accidente singolare mi fece scoprire un segreto d'inferno, che pochi hanno saputo. La sua malattia non era stata altro che un veleno datole dal Valentino per punirla della sua onestà. Povera infelice! Non son cose queste da chiamare i fulmini dal cielo? —

      Qui il Francese si fermò pensando, e pareva cercasse ricordarsi qualche circostanza che il tempo gli avesse annebbiata nella memoria.

      – Ma sì, non m'inganno: oggi fra i vostri uomini d'arme, nel venire a Barletta, ne ho veduto uno del quale per verità non mi sovviene il nome, ma che mi ricordo benissimo d'avere incontrato più volte per Roma in quel tempo; ed ha una statura ed un viso che non si dimenticano facilmente: si diceva da tutti fosse l'amante nascosto della Ginevra, e dopo la morte di lei sparì, nè mai più si seppe nulla de' fatti suoi (Mais oui, je suis sûr que c'est le même, disse volto ai compagni). Ad un miglio della città quando ci siamo fermati alla fontana per aspettare i fanti, quel giovane pallido, coi capelli castagni, e non penso d'aver mai veduto un viso d'uomo più bello nè più malinconico del suo… sì, sì, è lui sicuramente; ma il nome non me lo domandate. —

      Gli Spagnuoli si guardavano in viso studiando di chi volesse parlare.

      – Era Italiano? – domandò uno.

      – Sì; Italiano. È vero che non ha aperto bocca; ma un compagno che era sceso da cavallo, e gli porgeva da bere, gli parlò italiano.

      – E le sue armi?

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